Uno spensierato salto nella luce

Così Zincone nei suoi "appunti per il dopo"

Il sogno di ritrovarsi bambino di sei anni a parlare da pari a pari con Leonardo da Vinci e Federico II

Alla fine la lunga malattia ha avuto la meglio su un grande inviato speciale del giornalismo italiano. Giuliano Zincone è morto ieri, a 73 anni, e per quasi 40 anni è stato inviato-editorialista e grande firma del Corriere della Sera. Nella sua carriera ha anche diretto "Il Lavoro" di Genova e negli ultimi anni è stato collaboratore del Foglio e del Sole 24 Ore, oltre ad essere stato autore di libri d'inchiesta, romanzi e testi teatrali. Tra le sue inchieste, quelle sui boat-people vietnamiti o sulla vita nelle fabbriche.  

Nel 2007 il Foglio chiese ad alcuni collaboratori e redattori di scrivere  in quindicimila battute i propri "appunti per il dopo". Il 5 luglio Giuliano Zincone scrisse i suoi.

Innanzitutto, nessuno osi sostenere che me ne sono andato in punta di piedi. Questa sciagura (Dio ce ne scampi) potrebbe colpire soltanto un’étoile che precipitasse nella botola d’un qualsiasi palcoscenico. Io mi sentirei troppo ridicolo e/o inquietante, se raggiungessi l’estremo involucro con quell’andatura artificiosa. Per di più, agonizzando. Né vorrei che, visitando la mia salma, qualcuno sospirasse che sembro addormentato. Ma non lo vedi, scemo, quanto sono pallido? Ma non lo senti che non russo? Il necrologio, infine, si astenga dall’affermare che sono scomparso. Molti possono testimoniare che non sono affatto sparito, ma che anzi ingombro un giaciglio con le suole delle scarpe bene in vista, col vestito buono e con le mani strette sul rosario.

Reciteranno anche l’Eterno riposo, e questa generosa preghiera vorrei comprenderla meglio. Come farò a riposare davvero, se sarò abbagliato da tutta quella luce perpetua? Per consolare i superstiti, qualche pia donna bofonchierà che sono andato a riunirmi con i miei cari. Un momento. Chi sarebbero, questi cari? Non tutti m’erano simpatici. Qualcuno, anzi, non lo sopportavo. Selezioniamo, per favore. Con lo stesso criterio, alcuni sciagurati s’azzarderanno a prevedere che, sopra una nuvola, scriverò articoli e libri potabili. No, grazie. Non ho voglia di lavorare nei secoli dei secoli. Chissà perché, questo (mal)augurio aggredisce soltanto chi, in vita, s’è dedicato ad attività superflue e/o ornamentali. Secondo parecchi agiografi, per esempio, Tognazzi e Sordi dovrebbero eseguire spassosi duetti in Paradiso. Però nessuno, giustamente, prevede che i minatori defunti spalino carbone azzurro con sempiterna beatitudine.

Immagino il mio funerale, che desidero affollato, a costo di distribuire biglietti per una lotteria tra i partecipanti. Primo premio: un’auto cinese Kiu-Kiu (QQ), quattro porte, 3500 euro, la vettura di domani. Musiche: “A wither shade of pale” (Procol Harum), “Yesterday” e “Eleanor Rigby” (Beatles), “The sound of silence” e “Bridge over troubled water” (Simon & Garfunkel), “Mr. Tambourine man” e “Knockin’ on heaven’s door” (Bob Dylan), il tutto cantato da voci bianche inglesi in cotta rossa. Niente Dies Irae, per favore, anche se non mi dispiacerebbe quel solvet saeclum in favilla. Nel senso che preferirei andarmene in totale compagnia. Non sopporterei, per esempio, che i sopravvissuti continuassero a frequentare i concerti di Vasco Rossi. E che, io sono cenere e voi agitate gli accendini, come se niente fosse? Chiuso nella sobria cassa, penserò a quello scemo di Ugo Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti/ poca gioia ha dell’urna”. Siamo matti? A parte il fatto che nessuno (ma proprio nessuno) ha troppa gioia, quando finisce nell’urna, sospetto che sia più addolorato degli altri proprio chi lascia molta gente che gli vuole bene. Mah. Comunque, dopo il festoso funerale, ecco il fuoco.

Cremazione. Non sentirò il caldo eccessivo, i miei sensi saranno già altrove, svolazzando. Però le ceneri dovranno fare una fine dignitosa. Mica come nel film “Il grande Lebowsky”, dove i rimasugli dell’amico vengono gettati controvento, e il defunto finisce sulle facce dei superstiti afflitti. Poi c’è una storia vera, che racconto con raccapriccio. Anni Quaranta. Uno zio d’America soleva spedire provviste ai poveri nipoti italiani: barattoli di corned beef, di latte condensato, etc. Un giorno, nel pacco, comparve una scatola di farina grigia, e i parenti la usarono per farci la pizza. Solo dopo qualche settimana appresero che avevano gustato le ceneri del congiunto. Siccome non mi ritengo molto saporito, la storia mi colpì, e ne ricavai un testo per il festival di Spoleto, che chiedeva commedie brevissime. La mia finiva con la foto dello zio che cadeva dalla parete, per comprensibile indignazione del protagonista cannibalizzato. Quelli di Spoleto preferirono uno sketch di Samuel Beckett, chissà come mai.

Tutto questo riguarda il transito dalla Valle di Lacrime all’Altrove che m’immagino gaudioso. Quando ero un bambino di undici anni, qualche serio sacerdote mi terrorizzò durante gli Esercizi Spirituali, sostenendo che l’Inferno era fuoco vero, mica una metafora. Bastava un Pensiero Cattivo prima d’addormentarmi, bastava (non si sa mai) morire nel sonno e addio: tormenti senza fine. Quindi preferisco fidarmi del teologo Hans Urs von Balthasar, secondo il quale (Dio lo benedica) l’Inferno esiste, ma potrebbe essere vuoto. Dunque, niente incontri con quel tizio che rosica i crani dei figli, né con quel gondoliere che percorre la sua rotta inconcludente trasportando verso supplizi efferati gli uomini e le donne che hanno la sola colpa d’aver vissuto come uomini e come donne. Il Purgatorio, poi, è un parto della creatività ecclesiastica medievale: uno spot per vendere indulgenze. Presto lo abolirà anche la Santa Sede, così come ha eliminato l’incredibile Limbo. Insomma, nella mia assidua ricerca del Vero, l’immagine (e la definizione) delle Anime Purganti non m’ispira pensieri delicati. Dunque la cancello dalla mente e dal cuore.

Mi piacerebbe molto, invece, credere che mi aspetti un radioso futuro iperuranio. Questa idea, che condivido con una considerevole porzione dell’umanità, nasce dall’istintiva e tenace ripugnanza per la morte, considerata come atrocemente contraddittoria di fronte ai progetti infiniti che nutrono l’esistenza d’ogni persona comune. Affondo nel grado zero della banalità, constatando che è molto difficile rassegnarsi all’estinzione definitiva. Qualcuno ritiene di sopravvivere letteralmente/religiosamente reincarnandosi o volando in Cielo. Altri (laicamente/ simbolicamente) affidano le speranze d’eternità alle proprie opere. Piantare un albero o addirittura un giardino, come quello dell’ipocrita Amministratore Umile di Suzhou. Scrivere un libro, costruire una casa. Molti scommettono sui figli. I più ottimisti su qualche rivoluzione, sul loro modesto o decisivo contributo a seminare una civiltà serena e pacifica, oppure prepotente e feroce, ma giusta. Pochissimi desiderano che tutto finisca davvero, quando l’encefalogramma diventa piatto. La cultura cattolica ci consola, promettendoci l’Aldilà. Però l’iconografia di parecchie tombe sembra fatta apposta per sgomentarci. Teschi e tibie, scheletri digrignanti, promesse di putrefazione (nel Seicento esagerarono, certo): nelle chiese antiche, le immagini orrende prevalgono su quelle serene. Lassù, sui soffitti e sulle absidi, sorridono e volteggiano i beati. Sui pavimenti e sulle pareti, le lapidi c’inchiodano al destino caduco del corpo, alla cena dei vermi. Come scrisse Shakespeare dell’estinto Polonio: “E’ invitato ad un banchetto dove non è un commensale, ma una pietanza”.

Tutto questo ci atterrisce e ci disgusta. Quindi, viva la vita eterna, viva la speranza dell’immortalità, viva il Paradiso. I regimi totalitari del secolo scorso rimandavano la beatitudine collettiva in terra ad un futuro non misurabile: “Diecimila anni”, secondo Mao Zedong. Ma, in cinese, diecimila è un numero prossimo all’infinito. I surrealisti, invece, esigevano “oggi e qui, l’Aldilà dei nostri giorni”. Il delirio di Mao è stato sepolto sotto una selva di grattacieli. Il sogno surrealista ha prodotto quadri e poesie. Ma l’Aldilà è un’altra cosa.

Il guaio è che questa Cosa non possiamo aspettarla come un pacco di Natale a sorpresa. Siamo costretti ad immaginarcela. E a me, quidam de populo, ma pur sempre sovrano dei miei pensieri, riesce molto arduo credere che il Paradiso sia il luogo (lo stato d’animo?) che mi hanno descritto nel Catechismo, e anche nelle successive spiegazioni che, lo confesso, ho letto distrattamente.

Distrattamente? Ebbene, sì. Non vedo perché mai, di fronte ad un Mistero talmente imperscrutabile e gigantesco, l’opinione di un qualsiasi scienziato debba prevalere sulla percezione dell’uomo della strada che attende un destino dove s’annidano, forse, molte più sorprese di quante ne comprenda qualsiasi filosofia. Ohé, soltanto i pensatori meritano il Paradiso? Non credo. Quindi ecco come io, spensieratamente, immagino quel Posto. Per me e soltanto per me. Perché, altrimenti, mi sentirei imbrogliato e ingiustamente collettivizzato.

Le mie curiosità e i miei desideri sono, in fondo, piuttosto elementari. Quale aspetto avrò, soprattutto dopo la miracolosa resurrezione della carne dal mucchietto delle mie ceneri? E l’età? Sarò più vecchio di mio padre, che è morto a cinquantasei anni? Di fronte a lui, finalmente, potrò far valere la mia più lunga esperienza terrena? Saremo tutti uguali (oddìo), al disopra delle nuvole? Mi ricresceranno i capelli, e di quale colore saranno? Quando ero piccolo (così mi raccontarono) ero precocissimo, biondino e indisciplinato. Ecco, in Paradiso vorrei avere sei anni, ma parlare da pari a pari (mettiamo) con Leonardo da Vinci e con Federico II di Svevia. Loro non mi snobberebbero. Josif Brodskij, probabilmente, sì. Gli domanderei: Ti ricordi di me, vecchia pellaccia? Lui risponderebbe: “No, come si permette?”. Amen, e buona luce perpetua.

Se il recupero del corpo infantile fosse vietato, esigerei che, almeno, non ci fossero gerarchie, tipo Serafini & Cherubini in camicioni che ti mobilitano per l’adunata con le gote gonfie e con quelle buffe trombe. Se il cielo è un premio, lassù ciascuno dovrebbe fare (o non fare) quel che gli pare e piace, muoversi o giacere dove e quando lo desidera, senza obblighi d’alcun genere, senza limiti di tempo e di luogo. Altrimenti, tanto varrebbe far domanda di tornare nella Valle di Lacrime (anche questa facoltà dovrebbe essere garantita). Quel che mi preoccupa è la promessa di spendere l’eternità gorgheggiando le lodi dell’Altissimo. Questa (lo dico con rispetto) mi sembrerebbe una pretesa quasi crudele, da parte dell’Onnipotente. E che, ci hai creato per farTi da juke-box? Io, per esempio, canterei volentieri con i Beatles del mio cuore, quando mi raggiungeranno al completo, e se avranno ancora voglia di sgolarsi per farmi piacere. Ma, perfino con loro, mi basterebbe una mezz’oretta, mica uno sperpetuo di “Lucy in the Sky”.

Sarei lieto anche di sapere se mi trovo davvero “nel mondo dei più”. Secondo alcuni demografi, il numero dei morti, ormai, è inferiore a quello di chi popola l’Orbe Terracqueo. Che cosa dicono, i censimenti celesti? Non sono disponibili, a che servono? Allora domanderei a San Pietro: Potresti dirmi quanti siamo? Lui, forse, risponderebbe: “Non ti preoccupare. Tanto, prima o poi, arriverà la fine dell’Universo, e saremo tutti qui”. Ribatterei: Scusa Piero, perché hai detto Universo? Significa che c’è vita, lontano dalla Terra? Mi aspetterei una risposta tipo: “Ma non li vedi, quegli ometti viola? Sono personcine perbene, creature di Dio, proprio come te”. Invece, temo, il vecchio Piero sarebbe più enigmatico: “L’Universo è tutto ciò che esiste. Hai presente il Giudizio Universale, ti ricordi il famoso Diluvio?”. Come no. Se è per questo, ho frequentato pure l’Università. E tu, te li sei scordati, i tre canti del gallo? Insomma, riuscirei a litigare perfino con il Supremo Portiere.

Rimane aperto un problema. Come riempire questa voragine di tempo? Nel primo anno vorrei fare il fantasma, infestando qualche ministero, terrorizzando i tifosi dell’Inter, gonfiando d’incubi le notti di chiunque io giudicassi (inappellabilmente) troppo avido, stupido e/o cattivo. Nel secondo anno accetterei volentieri un impiego da assistente di San Gennaro, e distribuirei vincite favolose (ma compatibili con le loro capacità di spenderle) a chi mi pare, capricciosamente. Userei il terzo anno per scatenare tutta la mia arguzia dialettica (prodigiosamente moltiplicata dal trapasso) per convincere il Padreterno che è ora di finirla con le solite piaghe, tipo guerre, fame, sete, inondazioni, cavallette etc. E aggiungerei che questa storia delle sofferenze uguali a doni da dedicare a Lui, ha stufato un po’ tutti. A questo punto sarei pronto per attraversare il tunnel che buca le Nubi dell’ Ultimo Lavacro. Poi m’immergerei nel Nembo della Totale Conoscenza. E, infine, gusterei l’estrema vertigine sullo Stratocumulo della Serena Contemplazione. Al termine di questi percorsi obbligati, sarebbe asciutto il mio serbatoio di propellenti sublimi. Riposo e silenzio, dunque. Oppure, per volontaria e lieta penitenza, un mesetto di cori gregoriani con la turba osannante.

E poi? Una giornata nel paradiso terrestre, cioè a Guilin (Cina). Pomeriggio sul fiume Li, sopra una zattera di tronchi di bambù, sospinto dolcemente da un Motore Immobile nel paesaggio di dolomiti nane verdissime, fino alla collina dello Zoccolo di Capra Rovesciato. Sulle rive, cortei di anatre e di cormorani in attesa della pesca. A questi volatili (forse i più stupidi del mondo) i padroni stringono i colli con apposite cordicelle, per impedire che inghiottano le prede e per sequestrargliele. Io abolirei una simile pena. Lascerei libertà d’ingoio agli uccelli, e compenserei i pescatori con doni di lenze e di reti efficacissime. Al tramonto, mi basterebbe un cucchiaio di brodo di tartaruga, e poi un sorso di grappa di serpente, vicino al laghetto del Drago di Legno.

E poi, e poi? Sulla faccia della Terra ci sono molti paradisi. Ci vorrebbero dieci anni o forse cento, per assaggiarli tutti. Ma l’eternità rimarrebbe intatta. Chi, come me, e come la maggioranza dell’umanità, è povero (oltretutto) d’immaginazione, si stancherebbe rapidamente (ritengo) perfino delle semprevergini promesse ai martiri musulmani. Così, non ci resta che il salto nel buio, cioè nella luce sempiterna e ignota. Certo, dovrei fidarmi delle rivelazioni, delle visioni, della fede ragionevole dei teologi, dei Dottori e dei Padri della Chiesa. Ci proverò. Ma, per ora, temo che l’ipotesi di Urs von Balthasar vada estesa. E cioè che anche il Paradiso esista, ma potrebbe essere vuoto. Proprio come l’Inferno.

di Giuliano Zincone

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