Ora parla il generale Mori

Così l’ex capo dei Ros che arrestò Totò Riina

contrasterà la procura di Palermo (con pataccari al seguito) che lo accusa di reati assimilati alla grottesca messinscena della “trattativa stato-mafia”

Se fosse un film, dicono gli amici del generale Mario Mori, quella di venerdì prossimo potrebbe essere la scena finale di una pellicola intitolata più o meno così: “Indagine su un papello al di sotto di ogni sospetto”. E in effetti, a volerla prendere con ironia, la sorpresa che l’ex comandante dei Ros sta preparando per venerdì pomeriggio – quando scenderà a Palermo per difendersi in aula dalla condanna a nove anni di carcere richiesta nell’ambito del processo sulla trattativa stato-mafia dal pm Antonino Di Matteo, il magistrato che ha sostituito Antonio Ingroia (al momento affaccendato in altre attività in Valle d’Aosta) alla guida dell’inchiesta del secolo – presenta alcune sfumature che, se messe insieme una accanto all’altra, potrebbero incuriosire un bravo regista con sensibilità per gli spettacoli comici.

Spettacoli comici come quelli visti negli ultimi anni a Palermo. Dove Mario Mori, l’ex capo del gruppo operativo speciale dell’Arma dei carabinieri che nel 1993 arrestò Totò Riina, dopo essere stato prosciolto nel 2006 dalla procura di Palermo dall’accusa di favoreggiamento per non aver perquisito il covo del capo dei capi al momento del suo arresto, oggi è imputato per favoreggiamento, concorso esterno in associazione mafiosa e minaccia al corpo giudiziario da una procura (quella di Palermo) che ha costruito gran parte della sua inchiesta basandosi sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (“quasi un’icona dell’antimafia” secondo il guatemalteco Antonio Ingroia). Il quale Ciancimino accusa il generale Mori di essere stato al centro della famosa trattativa tra lo stato e la mafia sulla base di un pezzo di carta fotocopiato (il papello) di cui non si conosce l’estensore, di cui non si è mai visto l’originale, di cui non esistono riscontri storici definitivi e di cui, diciamo così, è lecito dubitare considerando anche un dettaglio non di poco conto: il testimone in questione, Massimo Ciancimino (arrestato qualche giorno fa a Bologna per associazione a delinquere ed evasione fiscale e già considerato dai magistrati di Caltanissetta, “dal punto di vista probatorio”, “un soggetto da considerarsi inattendibile”), è accusato in un altro processo dalla stessa procura di Palermo di calunnia e concorso in associazione mafiosa per aver falsificato un documento in cui faceva il nome dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro come altro uomo chiave della trattativa tra lo stato e la mafia.

Ecco. Se la premessa sull’indagine su un papello al di sotto di ogni sospetto potrebbe anche far sorridere, la scena che Mori girerà nel corso della sua lunga autodifesa che presenterà venerdì a Palermo assomiglia però meno a una comica: un’indagine parallela che il generale ha costruito durante il processo che lo riguarda, e che tra quattro giorni si concluderà con una sorta di atto di accusa contro le forze del papello, contro il sensazionalismo manettaro, contro i magistrati ideologicamente connotati, contro il circo mediatico-giudiziario, contro i pettegolezzi giornalistici, contro i pappagalli delle procure, contro gli avvoltoi da talk-show che emettono condanne o assoluzioni sulla base dei propri orientamenti ideologici e contro quegli opinionisti che hanno abituato i propri lettori a coltivare il culto della presunzione della colpevolezza a priori.

A giudicare dai documenti depositati in questi anni dagli avvocati di Mori alla cancelleria del tribunale di Palermo, l’accusa che il generale prepara in vista di venerdì non è però solo un gesto simbolico di un carabiniere ferito dall’accusa di essere sceso a compromessi con quella criminalità che ha sempre combattuto, ma è anche un atto politicamente significativo in quanto il generale ha scelto di arrivare fino a questo punto, e cioè di arrivare a mettere sotto processo i suoi stessi inquirenti, in modo deliberato: tanto da aver deciso un anno e mezzo fa, assieme al suo amico e imputato Mauro Obinu, di rinunciare alla prescrizione e di andare fino in fondo per dimostrare l’inconsistenza delle accuse dei magistrati e provare a far cadere il castello costruito dalla procura di Palermo attorno al processo dei processi (nessuno dei due imputati si è accidentalmente e penatianamente dimenticato di comunicare la decisione ai propri avvocati). Con la teoria, e cioè con l’attacco all’ideologia manettara, ma anche con la pratica, e cioè portando in tribunale delle controprove utili a smontare le teorie dell’accusa.

Già, ma in che senso? Il caso Mori, come è noto, è uno dei due grandi filoni portati avanti dalla procura di Palermo sulla presunta trattativa stato-mafia, e fa parte di un processo in cui gli imputati principali sono Mori e Obinu, in cui le accuse si riferiscono al fatto che i due ex capi dei Ros (nell’estate del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio) prima sarebbero scesi a patti con i mafiosi, attraverso colloqui segreti con Don Vito Ciancimino, e in seguito, alla luce di questo accordo, avrebbero volutamente evitato di arrestare nel 1995 il boss Bernardo Provenzano, quando secondo la procura ci sarebbe stata l’opportunità (la sentenza è attesa entro fine estate, i giudici andranno in camera di consiglio il 15 di luglio).

Il secondo processo, invece, è quello cominciato la scorsa settimana a Palermo, avviato sempre da Ingroia e Di Matteo, in cui un pezzo importante dello stato (da Mori ai politici dc Nicola Mancino e Calogero Mannino, passando per Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi) è accusato di aver intrapreso una trattativa con Cosa nostra per far cessare la stagione delle stragi.

Dal punto di vista processuale, i due casi sono scollegati, e lo stesso Mori nella seconda indagine è accusato di un reato (favoreggiamento) che nel primo processo compare solo come aggravante. Eppure, considerando il fatto che più di un terzo del materiale probatorio presentato dai magistrati coincide con il materiale probatorio del primo processo, le due storie in realtà sono più che collegate: ed è evidente che il secondo processo subirebbe un colpo micidiale nel caso in cui Mori e Obinu dovessero essere assolti. Mori lo sa, ovvio, ed è per questo che ha deciso di andare avanti, di rinunciare alla prescrizione e di provare a mettere sotto accusa una parte della procura di Palermo. Già, ma con quali argomenti? Il materiale che Mori porterà venerdì in aula, a quanto risulta, è strutturato in due grandi tronconi: da un lato la storia del famigerato “accordo segreto” con Don Vito Ciancimino, dall’altro la storia della mancata cattura di Bernardo Provenzano. In estrema sintesi, la versione di Massimo Ciancimino (che nel processo è il principale testimone d’accusa) si potrebbe riassumere così: il pm Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre Vito e dal generale Mori, all’epoca capo dei Ros; Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

La versione di Mori, naturalmente, è molto diversa: il generale colloca i colloqui con Ciancimino dopo la strage di Via d’Amelio (luglio 1992); rivendica quei colloqui come un tentativo di trasformare il boss mafioso in un collaboratore di giustizia; ricorda che nell’autunno del 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della commissione Antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione; ricorda anche che le date in questione (5 agosto 1992, 29 agosto 1992, primo ottobre 1992 e 18 ottobre 1992) sono state confermate in più occasioni dallo stesso padre di Ciancimino (la prima volta nel corso di una dichiarazione spontanea resa da Vito Ciancimino il 17 marzo 1993 al pm Antonio Ingroia); e soprattutto ricorda che la vera ragione per cui probabilmente fu ucciso il giudice riguarda un filone di inchiesta che i Ros all’epoca stavano seguendo con Falcone prima e con Borsellino poi, e che venne misteriosamente archiviato dalla procura di Palermo il giorno dopo la morte di Borsellino: il fascicolo 2789/90, l’inchiesta su mafia e appalti.

Sulla storia del mancato arresto di Provenzano, invece, il grande accusatore del generale è l’ex colonnello Michele Riccio, che nel 2001 chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano”. Nel 2001, cioè pochi anni dopo – cosa che avrebbe dovuto far indignare le gazzette delle procure – essere stato condannato a nove anni di carcere in primo grado (pena ridotta a quattro anni e mezzo in Appello) con l’accusa di “detenzione e spaccio di stupefacenti finalizzato a favorire i suoi confidenti e consentirgli di fare operazioni di successo per ottenere avanzamenti di carriera”. In sostanza, per tornare al processo, Riccio sostiene che nel 1995 un suo confidente (Luigi Ilardo) offrì la possibilità di catturare Provenzano e racconta che il 31 ottobre dello stesso anno – durante una missione dei Ros a Mezzojuso, piccolo comune a 34 chilometri da Palermo dove si nascondeva Provenzano – il generale Mori diede invece ordine di non agire.

Nella tesi dell’accusa, il mancato arresto di Provenzano sarebbe stato conseguenza naturale dell’accordo tra lo stato e la mafia. Ma anche qui Mori, venerdì, proverà a smontare la tesi della procura puntando non solo sulla controversa storia di Riccio ma anche su altri due punti: sul fatto che, come dimostrerebbero le carte in mano al generale, l’azione a Mezzojuso era stata organizzata con tutte le autorità competenti come un’operazione che avrebbe dovuto avere la finalità di studiare il territorio e di effettuare alcuni rilievi fotografici; e sul fatto che il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza sul luogo dell’operazione, in realtà non era neanche presente, ed era rimasto in ufficio (come testimoniato a fine 2009 dall’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta).

Ecco. Nel “processo al processo” che Mori porterà in aula venerdì a Palermo ci sarà tutto questo, e ci saranno anche alcune accuse precise (con nomi e cognomi di giornalisti, magistrati, opinionisti, testimoni) che il generale inserirà nell’autodifesa che verrà scritta nei prossimi giorni. Sarà un’autodifesa clamorosa, qualcosa di più di una semplice arringa difensiva, e in un certo modo, seppur con le cautele del caso, Mori proverà a dimostrare in un’aula di tribunale quello che sabato scorso uno dei più autorevoli studiosi di diritto penale d’Italia, Giovanni Fiandaca, ha scritto per la rivista giuridica Criminalia e che è stato pubblicato sulle pagine del nostro giornale sabato scorso: che un processo dove manca il movente, dove mancano le prove, dove i testimoni sono quelli che sono e dove non è neppure chiara la formulazione dei reati è un processo che, semplicemente, non si capisce come possa stare in piedi. Il senso del film di Mori è questo. E chissà che l’indagine su un papello al di sotto di ogni sospetto che il generale Mori ha girato negli ultimi cinque anni e che venerdì presenterà a Palermo non ci regali un finale a sorpresa. Chissà.

di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa

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