Ciò che mi stupisce davvero è l’aldiquà.

Gli "appunti per il dopo" di Ruggero Guarini

L’ipotesi della vita eterna è nulla di fronte all’assoluta stranezza che è il nostro esserci

Ieri è morto Ruggero Guarini. Aveva 82 anni ed era un amico del Foglio, anzi uno di famiglia. Napoletano di puro conio novecentesco, giornalista, scrittore, militante politico (fu comunista e anche di ultrasinistra, poi fustigatore del conformismo goscista), ma sopra tutto poeta e polemista raffinatissimo. Recente è una sua sontuosa traduzione del “Cunto de li cunti” di Gian Battista Basile. Ruggero Guarini ha partecipato con ironica generosità a molte delle più o meno recenti scorribande culturali del Foglio, da quelle contro il moralismo puritano e giustizialista ad altre più colte ancora. La notizia ci è giunta tardi, domani ne scriveremo più distesamente. Con orgoglio.

Nel 2007 il Foglio chiese ad alcuni collaboratori e redattori di scrivere  in quindicimila battute i propri "appunti per il dopo". Il 30 agosto Ruggero Guarini scrisse i suoi.

L’aldilà? Chissà. Non si può escludere. E se c’è davvero converrebbe lodarlo. Anche se lodandolo si corre sempre il rischio di scambiarlo con qualche aldiqua. Discorrendone, comunque, non basta asserire che non lo si può escludere: occorre aggiungere che non lo si può escludere definendolo un’ipotesi stravagante. Non è forse già abbastanza strano che ci sia qualcosa come l’aldiqua? In realtà la cosa più logica sarebbe che non ci fosse proprio niente, né l’aldilà né l’aldiqua. Nulla infatti sarebbe più ragionevole di un’infinita, eterna distesa di niente. Certo allora non ci sarebbe nessuno a distinguere ciò che è ragionevole da ciò che non lo è, ma sembra che niente, nemmeno il niente, abbia bisogno, per esistere, del parere di qualcuno che pretenda di valutare l’opportunità della cosa alla luce della ragione. Perché dunque ostinarsi a negare l’aldilà definendolo irragionevole? Rispondere “perché lo è” non è sufficiente, visto che assolutamente irragionevole è anche l’aldiqua.

Non dunque la speranza e il desiderio, e nemmeno la paura della morte, e neanche un fatuo fantasticare, bensì proprio la ragione suggerisce che il fatto che vi sia già un aldiqua è abbastanza più stupefacente e inverosimile della possibilità che accanto a questo aldiqua, o dietro o dopo di esso, vi sia anche un aldilà. Lo stesso va detto ovviamente anche dell’ipotesi – strettamente legata a quella dell’esistenza dell’aldilà – della nostra essenziale immortalità, o della nostra rinascita dopo la morte, o dell’idea che la nostra anima possa in qualche modo sopravvivere al disfarsi dei nostri corpi, e magari tornare a infilarvisi nel caso, contemplato dalla teologia cristiana, della loro resurrezione. Alla ragione, infatti, tutte queste stramberie, e tutte le altre possibili assurdità della stessa famiglia, dovrebbero sembrare molto meno irragionevoli del fatto davvero folle e inaudito che degli esseri come noi, o di qualsiasi altro genere o tipo, siano venuti alla luce già una primissima volta nella forma di abitanti di questo eterno aldiqua.

Del resto persino a quel miscredente di Voltaire la resurrezione non sembrava affatto assurda. Tanto che nella “Princesse de Babilone”, per bocca della leggendaria Fenice, osservò che “nascere due volte non è più strano che nascere una volta sola”. In questa frase insieme leggera e profonda un nostro brillante saggista, Mario Andrea Rigoni, ha giustamente scorto il prodotto di un pensiero in cui il buon senso si confonde con l’allucinazione, nonché l’espressione dell’unica forma di illuminismo che oggi possa sembrarci accettabile. Incoraggiato da questo autorevole placet mi affretto dunque a ripetere che il semplice nascere e morire anche una volta sola in un qualsiasi segmento o intervallo di quell’eterno presente che è questo nostro aldiqua è manifestamente una faccenda molto più inesplicabile e strana di quel supplemento o aggiunta di vita che sarebbe una nostra eventuale rinascita o resurrezione in un aldilà presumibilmente anch’esso eterno. Di fronte a quell’assoluta stranezza che è la nostra prima vita, la nostra vita per la prima volta, questa nostra prima volta della vita, un’eventuale seconda vita, per quanto anch’essa strana e sorprendente, e magari meravigliosa, rischia ahimé di sembrare, come tutte le ripetizioni, comprese quelle magari opportunamente rivedute e migliorate mercé qualche nostra prodigiosa e imprevedibile metamorfosi interiore, e perché no, anche esteriore, molto meno sbalorditiva. E forse proprio questa inaudita stranezza dell’aldiqua è ciò che mi induce ad apprezzarne anche e soprattutto proprio quel tratto che in tanti devoti dell’Eterno e dell’Eternità non cessa purtroppo di destare un sentimento di orrore per me incomprensibile: la cosiddetta caducità delle cose.

Un’illustre tradizione eroto-teologica vuole infatti che uno dei segni più manifesti dell’umana insensatezza sia il nostro famoso attaccamento a cose mutevoli e caduche. Ma se è proprio perché sono tali che ci attacchiamo alle cose! Se esse non fossero appunto fugaci, non temeremmo di poterle perdere; e se non temessimo questo, non sentiremmo il bisogno di trattenerle presso di noi; e se non sentissimo questo bisogno, non ci aggrapperemmo a esse con la tenerezza o la furia di chi vorrebbe sottrarre per sempre alla rapina del tempo, insieme agli oggetti del proprio attaccamento, anche quell’altro elemento non meno mutevole e fuggitivo che è il pur esso caduco soggetto di questo desiderio, ossia noi stessi… Molto più inesplicabile del nostro comune attaccamento a cose ed esseri perituri è piuttosto proprio quella forma di amore sublime che si suppone rivolto a quell’essere immutabile e perfetto, indeperibile e inossidabile, imperturbabile e inalterabile, che è il dio dei filosofi, e anche di certi teologi. Ma poi chissà chi sono realmente i destinatari di questi supremi messaggi d’amore! Magari sono gli stessi mittenti… A questi supposti amanti di un Eterno che si confonde con la nostra stessa brama di eternità conviene comunque ricordare le seguenti ovvietà:

1) Ogni attaccamento, essendo fomentato dal timore di perdere ciò a cui ci si è attaccati, è necessariamente un attaccamento a qualcosa di caduco, giacché non certo qualcosa come un immarcescibile Eterno ma appunto soltanto degli oggetti e degli esseri fragili ed effimeri possono soggiacere a quella legge della caducità che li rende amabili e desiderabili. 2) Chi dunque afferma, crede o sente di essere attaccato o di volersi attaccare a cose immutabili e imperiture, e affermando e credendo questo prova sul serio un verace attaccamento per qualcosa, non può che essere vittima di un miraggio, di un’immaginazione, di una chimera, grazie alla quale quel nome sublime – Eterno! – si è per così dire appiccicato ai veri oggetti del suo attaccamento, i quali nondimeno appartengono anch’essi al novero di quelle cose mutevoli e periture – oggetti, luoghi, esseri, persone, stagioni della vita – alle quali soltanto può apprendersi il nostro bisogno di attaccamento. 3) Tutto ciò non è soltanto logico e verosimile ma anche giusto, giacché a qualcosa di perfetto e di imperituro, di autonomo e incommutabile, di inalterabile e incorruttibile, ossia a un essere che non abbisogni di nulla come l’Eterno platonico e il Motore Immobile di Aristotele, che cosa mai gioverebbe il nostro attaccamento? 4) E’ invece fin troppo evidente che tutte le cose mutevoli e periture trovano un indispensabile fomento nell’incessante gioco amoroso dei loro reciproci attaccamenti e congiungimenti, nonché in quello altrettanto incessante dei loro stessi disgiungimenti e ribrezzi, sicché nessuna di esse, ove fosse sottratta a questo gioco, potrebbe persistere e sussistere nel suo essere per il tempo assegnatole dal suo destino, e se questo gioco s’interrompesse tutto, anche l’Eterno, o meglio l’immagine che se ne fanno i suoi fan, precipiterebbe nel nulla. 5) Dunque attaccarsi all’Eterno equivale a volere il Nulla…

Tutto ciò del resto appare confermato da una circostanza che dovrebbe sembrare di un’evidenza abbagliante, cioè dal fatto che il potere di tutte le cose che riescono a destare la nostra facoltà di attaccamento è intimamente legato alla loro fugacità. Nel nostro attaccamento a una rosa, a una dimora, a una città, a una fanciulla o a una certa ora della nostra vita, agisce infatti sempre l’oscuro, struggente presentimento della loro inevitabile fine, remota o imminente che sia: la rosa sfiorirà, la dimora ruinerà, la città decadrà, la fanciulla avvizzirà, il ricordo di quell’ora si appannerà e dissolverà. Ed è proprio per mitigare e lenire lo strazio che esse ci procurano evocando col loro destino mortale l’universale caducità che noi non cessiamo di attaccarci in vario modo a cose come le rose, le dimore, le città, le fanciulle e certe ore della nostra vita. Persino il nostro amore per il sole, assunto fin dalla notte dei tempi a simbolo dell’Eternità, presuppone in realtà il sotterraneo timore, tutt’altro che infondato, del suo fatale, benché probabilmente non molto prossimo, esaurimento e spegnimento.

Ed eccomi incappato nel controsenso previsto all’inizio: partito dall’idea di giustificare e lodare l’aldilà e l’eternità, ho snocciolato un’apologia della caducità e dell’aldiqua… Quale la causa di questa incongruenza? Non potrebb’essere il fatto che l’aldilà non si manifesta affatto nell’aldilà ma nel cuore stesso dell’aldiqua? E che innumerevoli sono i testi poetici e speculativi che alludono agli equivoci rapporti dell’eterno col presente e col caduco, e che proprio evocando quel trucco assoluto che è l’eterno ritorno del presente e del suo perenne fuggire e perire riescono a volte a procurarci un’inesplicabile letizia. Mi limiterò a citarne cinque.

Il primo è un famoso apologo taoista: “Dormendo, ho sognato di essere una farfalla; quando mi sono svegliato, ero di nuovo Tchouang-tseu; chi sono dunque mai: Tchouang-tseu che ha sognato di essere una farfalla o una farfalla che sta sognando di essere Tchouang-tseu?”.

Il secondo è un ardito pensierino di Meister Eckhart: “Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l’angelo e la mosca e l’anima sono uguali: là dove stavo e volevo quello che ero, ed ero quello che volevo”.

Il terzo è un celebre motto di Shakespeare: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (“Macbeth”, Atto V, Scena V).

Il quarto è l’ultimo capoverso del “Cantico del gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro moti maravigliosi, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi”.

Il quinto è una famosa poesia di Montale, “L’anguilla”: “L’anguilla, la sirenadei mari freddi/ che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari,/ ai nostri estuari, ai fiumi/ che risale in profondo, sotto la piena avversa,/ di ramo in ramo e poi/ di capello in capello, assottigliati,/ sempre più addentro, sempre più nel cuore/ del macigno, filtrando/ tra gorielli di melma finché un giorno/ una luce scoccata dai castagni/ ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,/ nei fossi che declinano/ dai balzi d’Appennino alla Romagna;/ l’anguilla, torcia, frusta,/ freccia d’Amore in terra/ che solo i nostri botri o i disseccati/ ruscelli pirenaici riconducono/ a paradisi di fecondazione;/ l’anima verde che cerca/ vita là dove solo/ morde l’arsura e la desolazione,/ la scintilla che dice/ tutto comincia quando tutto pare/ incarbonirsi, bronco seppellito;/ l’iride breve, gemella/ di quella che incastonano i tuoi cigli/ e fai brillare intatta in mezzo ai figli/ dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu/ non crederla sorella?”.

Questi cinque testi, scelti a caso fra quelli che non cessano di incantarmi per il grande tatto con cui alludono, senza mai nominarlo, all’aldilà, annunciano cinque cose diverse e persino opposte. Il primo insinua che la vita è indistinguibile dal sogno. Il secondo allude al mistero dell’identità di tutti gli esseri. Il terzo assicura che la storia umana è una tragicommedia assolutamente insensata. Il quarto ci notifica che la Realtà – non questo o quel suo aspetto ma tutta la Realtà – si inabisserà in un nulla eterno molto prima che la nostra ridicola pretesa di strapparle il suo segreto sia stata soddisfatta. L’ultimo infine celebra invece l’eterno ritorno della vita. Eppure sia l’incantevole apologo di quel burlone di Tchouang-tseu, sia l’allusione di Meister Eckhart alla nostra segreta affinità con gli angeli e le mosche, sia la disperata sentenza di Macbeth, sia il terrificante annuncio del gallo leopardiano, sia la strenua, caparbia, esaltante avventura dell’anguilla montaliana, hanno il singolare potere di farci passare la voglia di discorrere dell’aldiqua. E anche, naturalmente, dell’aldilà. Il che forse accade perché queste differentissime scosse mentali – il piccolo vacillamento che può procurarci il primo testo, lo strano brivido che può trasmetterci l’analogia evocata dal secondo, lo sgomento che può suscitare la funerea saggezza del terzo, il terrore che può provocare la catastrofe cosmica evocata dal quarto, la lieta meraviglia che può destare l’eroica impresa descritta nel quinto – sono in fondo cinque diverse espressioni di uno stesso irriducibile stupore.

Lo stupore… Nulla, di fronte allo stupore destato dalla costituzione irriducibilmente enigmatica del tutto, è forse più comico della nostra smania di conoscere il senso delle cose ultime… Giacché questa conoscenza non potrebbe avere, per noi, che un effetto disastroso. Che senso avrebbe infatti continuare a campare dopo aver scoperto il senso della vita, ossia dopo averne estirpato tutti quegli elementi – il mistero, il caso, l’inatteso, l’inesplicabile, la meraviglia, l’orrore – che sono manifestamente inseparabili sia dalla felicità che dal dolore, vale a dire da tutto ciò che rende la vita “interessante”?

A questo punto mi accorgo di non aver mai nominato la Storia. Della quale c’è chi pensa che appartenga solo all’aldiqua, mentre altri sospettano invece che abbia a che fare anche con l’aldilà. Tenterò di rimediare con altre tre citazioni: 1) “La storia è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi” (James Joyce). 2) “La storia porta a tutto purché se ne esca fuori” (Claude Lévi-Strauss). 3) “C’è più aldilà in un solo istante dell’aldiqua che in tutta la storia universale” (anonimo napoletano).

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Ruggero Guarini

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