Per comprendere Laura Boldrini è indispensabile

la visione aziendale della “Corazzata Potëmkin”

Gli occhi e nient’altro. Sono gli occhi di Laura Boldrini a dire tutto di lei. E’ nel suo sguardo di Matrigna Addolorata che s’indovina, inabissata in due laghi di nevrosi equorea, la totalità delle sofferenze mondane. Occhi che denunciano più d’ogni commiserazione verbale, oltre ogni palinsesto istituzionale da lei offerto in viva voce agli ultimi del cielo e della terra. Appesi a due sopraccigli piangenti, bracci d’un ponte levatoio spalancato dalla piena di un Acheronte, quelli di Boldrini sono “gli occhi della madre” conficcati sul massacro di Odessa che avrebbe provocato la Rivoluzione d’Ottobre. Gli occhi immortalati da Sergej Ejzenstejn nella sua “Corazzata Potëmkin” e infine resi materia da cineforum popolare grazie al “Secondo tragico Fantozzi”, con la Pina chiamata ripetutamente a boldrineggiare nel remake della celebre scena, poco prima che il marito si facesse gettare dalla scalinata in una carrozzina da infante (“spinghi piano che oggi è la quarta volta”): sacrificio cruento per espiare l’effimera rivolta contro la coatta visione aziendale della “Corazzata”, che diventa “Kotiomkin” ed è una “cagata pazzesca”.

Ecco, Boldrini va studiata così, togliendo il sonoro alla sua militanza permanente contro le ingiustizie sociali, va fissata attraverso le sue movenze che sarebbero senz’altro frenetiche, se la sua compulsività non venisse trattenuta in uno sforzo senza pace. Ma di là da ogni sua fatica, la presidentessa del ramo parlamentare cadetto tradisce una visione mistica che obbedisce a un temibile e antichissimo archetipo: quello delle civiltà matriarcali asiatiche o mediorientali in cui un tellurismo sfrenato anima corteggi d’eunuchi e figuranti sanguinolenti, stretti intorno a un idolo femminile che nel suo entusiastico dolore riscatta i loro patimenti. Boldrini non lo sa, forse lo intuisce appena, ma seduta sul trono di Montecitorio appare come la reincarnazione d’una sacerdotessa della tremenda dea Syria: regina di un sabba forastico e senza gioia, matriarca dei penitenti erratici, appena addolcita dal grigiore di un tailleur equosolidale impostole dai tempi moderni quale divisa d’ordinanza. Il suo tiaso d’origine, il tiaso di Sel, non è tanto quello di “Sodomia e libertà”, secondo la definizione che un barbaro leghista ha tentato maldestramente d’affibbiarle, è piuttosto quello di “Sofferenza e lacrimazione”: due roveti ardenti che fiancheggiano il suo cammino dei sette dolori.

Figurarsi se il vanaglorioso Pietro Grasso, presidente di Palazzo Madama, sarebbe in grado di fronteggiare Boldrini invocando un senatoconsulto de syriaca superstitione. Sicché, rassicurati dalla presenza di un generalissimo sul colle di Quirino, non resta che fare appello alla potenza demistificatoria del cinematografo, e mitridatizzare l’occhio della madre incatenandolo alla recita innocua della Pina Fantozzi, consapevoli che in fondo la “Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”.

Lo Prete, Boldrini choc, 6/7

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