Chi incastrerà Schifani? Il gip vuole nuove indagini.

 Il rischio è che si apra un’asta tra i pentiti

In quel di Palermo succedono pure queste cose. Che i pubblici ministeri – il fior fiore dei pubblici ministeri: da Antonio Ingroia a Nino Di Matteo – indagano per tre anni su Renato Schifani, ex presidente del Senato e oggi capogruppo del Pdl a Palazzo Madama: passano a setaccio carte e testimonianze, interrogano non uno ma quattro pentiti e ricostruiscono ogni dettaglio del rapporto che vent’anni fa, quando esercitava la professione di avvocato, Schifani aveva intrattenuto con alcuni amministratori di Villabate, poi processati e condannati per mafia. Ma dopo tre anni – una eternità, per l’indagato – i pm si rendono conto che non ci sono prove sufficienti per sostenere un’accusa di concorso esterno e chiedono al giudice per le indagini preliminari, Giorgio Morosini, l’archiviazione dell’inchiesta. Schifani, già abbondantemente mascariato dalle indiscrezioni finite sui giornali, crede che la liberazione, la liberazione dall’incubo, sia questione di giorni. E aspetta fiducioso. Invece no. Con una decisione che Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione Esteri della Camera, definisce “fuori dalla normalità”, il gip non solo respinge la richiesta ma, nel disporre nuove indagini, fornisce ai pm l’elenco di altri sette pentiti da ascoltare.

C’è un dettaglio: i sette pentiti ai quali il dottor Morosini fa riferimento, pur nella loro collaudata loquacità, non hanno mai tirato in ballo Schifani. E per i pubblici ministeri, che avranno quattro mesi di tempo per portare a compimento la missione, sarà veramente difficile formulare una domanda tanto generica quanto insolita: “Pentito Giuffrè, ci dica: lei che cosa sa del senatore Schifani? Secondo lei era o non era un amico dei boss?”. Perché l’indagine rischia di trasformarsi in un referendum. Anzi in un’asta. Chi conosce i pentiti sa di che pasta sono fatti. Molti di loro sono sinceri e raccontano solamente le cose che hanno visto con i propri occhi. Altri sono dotati di un sesto senso: capiscono al volo che cosa i magistrati vogliono sentirsi dire e fanno a gara per aggiudicarsi il merito di avere incastrato un imputato eccellente. Certi che, in cambio, acquisteranno privilegi e benemerenze. Chi non ricorda il pentito Salvatore Cangemi che per anni non aveva mai parlato di Silvio Berlusconi e che un giorno, all’improvviso, cambiò parere? Incalzato da un pm particolarmente zelante, raccontò le cose più inverosimili e arrivò persino a descrivere i contatti tra il Cav. e Totò Riina, boss dei sanguinari corleonesi. Tutte balle, ovviamente. “La mia memoria è come una vite arrugginita: si apre a poco a poco”. Così si giustificò in aula quando il presidente del tribunale gli chiese conto e ragione di quella sua repentina partecipazione all’asta degli accusatori.

© - FOGLIO QUOTIDIANO, 27/7

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