Decostruzione e ricostruzione di un verdetto che

condanna il governo alle riforme (quelle vere)

C’era una volta un Cavaliere e c’era una sentenza che ora non c’è più…”. Favole, penso. Le undici stanno per scoccare, è il primo venerdì d’agosto, 35 gradi surriscaldano anche le foglie di Villa Borghese. Non sarebbe l’ora giusta, ma nel day after dell’amaro calice per Berlusconi, parte l’ordine al barman. “Birra?”. Il novellatore di cose di stato al mio fianco mi blocca: “No, mi ricorda quello che smacchia giaguari. Un Martini, secco”. Sbircia lo shaker e domanda: “Come si costruisce una sentenza?”. Dopo l’incipit da Fratelli Grimm, la domanda mi viene sparata in faccia a bruciapelo come in un racconto di Dashiel Hammett. Risposta: “Era già scritta, copione depositato in tipografia da anni”. Sguardo pieno di compassione per il cronista: “Si sbaglia, era un’opera in fieri, con buone premesse, un rumore lieto durante la seduta e un esito burrascoso imprevisto. Torni a consultare l’agenda del Quirinale, 11 giugno”.

Eccola, l’agenda del Colle quel giorno, intervento del presidente Napolitano all’incontro con i magistrati in tirocinio. Due pagine, 955 parole di Giorgio Napolitano che disse: “Indipendenza, imparzialità ed equilibrio nell’amministrare giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sul piano sia politico sia istituzionale”. E ancora: “Occorre che ogni singolo magistrato sia pienamente consapevole della portata degli effetti, talora assai rilevanti, che un suo atto può produrre anche al di là delle parti processuali”. E infine: “Il paese ha oggi grande bisogno di punti di solido riferimento nella capacità di vigilanza e di intervento della magistratura in nome e a tutela della legalità, così come nel rapporto corretto tra i poteri dello stato, in spirito di reciproco rispetto e di leale collaborazione”. Ottimo manuale di manutenzione della giustizia giusta e con i piedi sulla terra. Ignorato nel caso Berlusconi. La Cassazione ha deciso, quella storia processuale è finita, la sentenza è depositata, ma non finisce il romanzo del Cav. e l’opera resta incompiuta. C’è una traccia per il dopo. “Si concentri sui documenti. Legga il comunicato del Quirinale dopo la sentenza…”. Giorno del giudizio, mancano tre minuti alle venti e trenta, arriva come un fulmine una nota dal Colle: “Ritengo e auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all’amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso”. Passaggio a sorpresa. Come un clown che sbuca a molla dalla scatola magica. Capitolo di lavoro non previsto nel programma del prudente Gaetano Quagliariello, il ministro-sherpa di Berlusconi e Napolitano. Scudato, tenuto al riparo dalla tempesta politica, dal flip flop parlamentare, dal diritto e dal rovescio della battaglia tra fazioni, il titolo IV della seconda parte della Costituzione era considerato intoccabile. Ora quel “non possomus” è sparito. C’è il timbro del Quirinale. Porta aperta. Entra lesto il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta: “Il presidente Napolitano nella prima parte del suo comunicato parlava di rispetto della magistratura, delle sentenze, eccetera. Nella seconda parte, poteva anche non dirlo, invocava la riforma della giustizia – le condizioni ci sarebbero, a sua opinione, in Parlamento, per fare la riforma della giustizia – evidenziando un problema della giustizia in Italia. Ecco, sintonia da questo punto di vista”. Napolitano poteva non dirlo. Ma l’ha detto. E Magistratura democratica ha alzato il ponte levatoio del castello: “Negativo parlare di riforma della giustizia”. Anche il Colle è avvisato. Cosa è successo? “Non troverà il conforto di documenti ufficiali, ma esiste agli atti di questa storia un’immagine che racconta tutto il pensoso e penoso finale di partita. Ripassi il video della lettura della sentenza…”. Torniamo indietro, ma solo per schiacciare il tasto “play” e andare avanti nella decostruzione e ricostruzione. Rivediamola, la scena del verdetto. Palazzaccio di Piazza Cavour, un ventilatore gira a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Quasi come il pendolo di un racconto di Edgar Allan Poe. Fiato sospeso. Ore 19 e 40, il cigolio di una porta e l’annuncio: “La Corte”. Entra nell’aula Brancaccio il presidente Antonio Esposito con un paio di fogli in mano. Legge la sentenza. In piedi. A testa china. “In nome del popolo italiano…”. Per quattro volte il presidente si interrompe con un grugnito, quasi un’intrusione in gola. Un segno di disagio. E’ il corpo del giudice che dice l’indicibile. E’ la storia di un verdetto tanto “pacifico” e cristallino da dover essere dibattuto in camera di consiglio per sette ore. Quarantasette “no” alle eccezioni sollevate da un fine giurista come Franco Coppi. Troppi.

La regia è passata di nuovo nelle mani di Napolitano. Il suo invito a riformare la giustizia diventerà il banco di prova del governo. Quello che tiene tutto o fa saltare tutto. Altro che Imu. Altro che Iva. C’è la toga di mezzo. Riuscirà il prode Epifani a tenere a bada l’ala giustizialista del partito? Con D’Alema sarebbe stata un’altra storia, ma incontrando per caso il cronista l’ex segretario e premier dice con ironia: “Io sono un esodato”. E poi c’è Renzi, ora è il suo momento: deve dimostrare di essere un leader e non il sindaco di Firenze ispirato dalla Repubblica delle idee. Crescerà? Certezze in campo. Se Berlusconi è un prigioniero libero, il Pd è un ostaggio. Di se stesso.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Mario Sechi

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