Letta. Strattonato da Putin poi “sposa” Obama

Il presidente del Consiglio Letta a colloquio con Obama

L’Italia firma la condanna del raiss per l’uso dei gas

FABIO MARTINI INVIATO A SAN PIETROBURGO, La Stampa 7/9

Sono le due della notte, a San Pietroburgo è una di quelle serate mozzafiato che fecero scrivere a Fedor Dostoevskij: «Può vivere sotto un simile cielo gente iraconda e bizzosa?». 

 A quell’ora della notte pare se lo sia chiesto anche Enrico Letta, da pochi minuti reduce da una discussione memorabile con i grandi della Terra sul destino della Siria e - subito dopo - sempre lui, il capo del governo, si è ritrovato a chiedere aggiornamenti circa le ultime intenzioni di Silvio Berlusconi: rompe, non rompe? In questa scissione c’è tutto l’originale destino di un capo del governo che si è ritrovato, nel giro di poche ore, a fare i conti con due situazioni estreme. Da una parte l’alleato americano determinatissimo a bombardare la Siria, una decisione che non convince il governo italiano, ma neanche il Pentagono; dall’altra un leader della maggioranza domestica come Silvio Berlusconi, impegnato in una resistenza a oltranza ad una decisione della magistratura, atteggiamento senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali. 

 Per Letta un conflitto interiore che si è riverberato nella difficile gestione delle due giornate del G20, tutte dominate dalla questione siriana. Per 48 ore Enrico Letta ha camminato sul filo e non a caso, proprio in extremis, si è ritrovato a essere idealmente strattonato di qua e di là da, sia da Obama che da Putin. Con un intermezzo dai tratti paradossali: tra le 17 e le 20 ora russa, l’Italia è comparsa in due liste. In quella scandita dal presidente russo nella conferenza stampa finale, durante la quale Putin ha indicato il nostro Paese tra quelli del fronte anti-guerra; ma poi (a sorpresa) anche in un documento ufficiale di segno opposto, uscito a G20 concluso, quello voluto dalla Casa Bianca come forte sostegno politico (ma non militare) alla propria azione e che è stato sottoscritto da undici Paesi su venti. 

 Quello politico era l’unico appoggio che Obama voleva e l’ha ottenuto, con l’apporto determinante dell’Italia ma non della Germania. Ovviamente, a quel punto, l’equivoco della doppia lista si è sgonfiato: l’unica lista che contava era quella in calce al documento filo-Usa e anti-Assad, non quella, a voce, di Putin. E soprattutto, ecco il punto vero, l’Italia ha scelto di nuovo gli Stati Uniti, alla vigilia di una missione militare altamente controversa. Una scelta condivisa dalla Spagna di Rajoy: in zona Cesarini gli spagnoli hanno sottoscritto il documento promosso dalla Casa Bianca, ma anche uno bilaterale con l’Italia, che chiede un impegno comunitario a tutti gli altri Paesi europei per una soluzione politica.

 Letta ha dato una motivazione alta delle ragioni che hanno portato l’Italia ad appoggiare gli Stati Uniti. Con una premessa: «La condanna contro le armi chimiche come crimine contro l’umanità è un punto inequivocabile», «l’aver gasato bambini e civili non può ripetersi» e per punire questa terribile violazione, con gli Stati Uniti «la distinzione non è sugli obiettivi ma sugli strumenti da usare». Anche perché il rapporto con gli americani resta «forte e fondamentale». Tanto è vero che, palando con Obama, Letta ha raccontato di aver ribadito la posizione italiana e il mio impegno - ecco il punto - a «far sì che questa vicenda non allarghi l’Atlantico», «per non ripetere i disastri di dieci anni fa». 

 Dunque, l’Italia non si è allontanata politicamente dagli Stati Uniti per effetto delle pressioni americane, ma anche perché a palazzo Chigi ritengono pernicioso una nuovo divorzio dagli Stati Uniti, come quello seguito alla guerra in Iraq: per sanare quello strappo, «per ritrovare un linguaggio comune» ci sono voluti anni. E le ondate di antiamericanismo già si annunciano, con le manifestazioni non contro chi ha portato alla morte centomila siriani, ma contro gli Usa.

 E d’altra parte l’Italia si è mossa con prudenza verso gli Stati Uniti anche nell’accostarsi al G20. Nei giorni scorsi, su impulso della Farnesina ma con l’accordo di palazzo Chigi, si era accarezzata l’idea - come anticipato da «La Stampa» - di esercitare una pressione sugli altri Paesi del G20 per indurre la Siria a siglare la Convenzione contro le armi chimiche del 1993, visto che il regime di Damasco è uno dei cinque - con Angola, Egitto, Corea del Nord e Somalia tra le nazioni Onu - a non averla né firmata né ratificata. Ma poi si è preferito soprassedere. Per non rallentare le operazioni militari degli Stati Uniti? A palazzo Chigi negano: non era queste la sede e l’occasione «giuste» per una iniziativa importante ma che richiede un suo corredo formale.

Dago Spia

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