Quanto dista la nostra questua sindacale

dal Modell Deutschland. Le pressioni di Cgil-Cisl-Uil per

la Finanziaria di Letta a confronto con le riforme accettate dai sindacati tedeschi

Ieri sera a Palazzo Chigi si è aperto il tavolo di confronto tra governo e parti sociali in vista della formulazione della legge di stabilità, la vecchia Finanziaria. Presenti i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, mentre oggi toccherà agli imprenditori. In una fase in cui il riferimento più comune è alla “grande coalizione alla tedesca”, quella che a suon di riforme ha posto le basi della crescita odierna in Germania, il ruolo di associazioni di lavoratori e imprenditori appare ancora distante da quello degli omologhi di Berlino. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha corretto al rialzo le proposte di riduzione del cuneo fiscale cui lavora l’esecutivo: non basterebbero 5 miliardi, “se fossero 8-10 miliardi sarebbe meglio”. Perfetta sintonia con i sindacati che hanno chiesto meno tasse sul lavoro, un aumento dell’imposizione sui redditi più alti e sui patrimoni, modifiche alla riforma delle pensioni per lavoratori precoci e regimi lavorativi usuranti, oltreché un abbassamento dell’età pensionabile per le donne. Nulla o quasi su contrattazione aziendale, mercato del lavoro e sussidi di disoccupazione. Nonostante l’aumento del numero di imprese che chiudono i battenti o riparano all’estero, nonostante la crescita della disoccupazione e gli effetti deludenti dell’inasprimento fiscale (tra gennaio e agosto l’erario ha incassato dall’Iva 3,7 miliardi in meno dello stesso periodo dello scorso anno, con un calo di oltre il 5 per cento), il sindacato italiano non sembra disposto al compromesso sulle riforme strutturali, incluse quelle degli ammortizzatori sociali. Non pare quindi intravedersi alcuna prospettiva analoga a quella della Germania degli anni Duemila, quando il sindacato unitario comprese la difficoltà del momento e mandò giù la pillola amara della moderazione salariale nella prospettiva di una stabilizzazione dei livelli occupazionali.

Alla fine degli anni Novanta, la Germania era il “malato d’Europa”, con un tasso di disoccupazione in continuo rialzo e un’economia stagnante. Il cambio di rotta, prima ancora che dalla politica, fu impresso dalle parti sociali. “Il conservatorismo fiscale e le riforme strutturali da soli non spiegano la crescita guidata dall’export della Germania – hanno scritto su Foreign Affairs Kimberly Morgan e Alexander Reisenbichler della George Washington University – Questa crescita è infatti in larga parte il prodotto degli aggiustamenti intervenuti nelle relazioni tra padroni e lavoratori che hanno rinvigorito le industrie tedesche”. Nel 1999 Peter Hartz, a quel tempo capo delle risorse umane di Volkswagen, d’intesa con il capo del consiglio di fabbrica, Klaus Volkert, presentò un nuovo modello di produzione. Il piano, ribattezzato “5.000 per 5.000”, prevedeva l’impiego di cinquemila disoccupati con un salario mensile di cinquemila marchi lordi (circa 2.500 euro di oggi) per la produzione delle vetture Touran e Tiguan negli stabilimenti di Wolfsburg. Si trattava di uno stipendio legato non tanto alle ore lavorate, quanto all’output realizzato. Se gli obiettivi non fossero stati raggiunti, gli operai avrebbero lavorato anche fino a 42 ore settimanali (dal massimo di 35 allora in vigore), incluso il sabato mattina e con un minimo pagamento di straordinari, escluso per l’orario notturno. Si trattava di guadagnare in media un 30 per cento in meno, salvaguardando i posti di lavoro in patria ed evitando una delocalizzazione massiccia in Slovacchia. L’accordo, di durata quadriennale, non era tuttavia in linea con lo speciale contratto collettivo valido a quel tempo per gli altri lavoratori del gruppo (Haustarifvertrag) e avrebbe presentato anche condizioni meno vantaggiose rispetto al contratto collettivo siglato per il settore metalmeccanico nel Land Bassa Sassonia. Volkswagen avrebbe quindi dovuto creare una società controllata apposita (la Auto 5.000 GmbH), attraverso la quale assumere i nuovi operai. Dopo quasi due anni, nell’estate del 2001, i negoziati sembrarono sul punto di fallire per l’opposizione del sindacato a un allungamento dell’orario di lavoro senza corrispettivo. L’indignazione suscitata nell’opinione pubblica per una scelta che rischiava di sacrificare cinquemila posti di lavoro spaccò l’Ig Metall, il principale sindacato metalmeccanico, tanto che alla fine di agosto i vertici, capitanati da Klaus Zwickel, si convinsero a stringere il patto con i dirigenti del gruppo. L’accordo è passato alla storia non solo per aver inaugurato un modello di produzione innovativo, ma anche e soprattutto come una delle tante intese attraverso le quali il sindacato tedesco ha accettato, in cambio della salvaguardia dei posti di lavoro, adeguamenti salariali non superiori al tasso di inflazione programmato del 2 per cento, oltre a orari e condizioni di lavoro più flessibili.

Il boom di produttività e competitività

Subito dopo l’ingresso nell’euro, secondo il report interno di una banca italiana consultato dal Foglio, dal 1999 al 2008 il costo del lavoro nel paese è cresciuto del 20 per cento circa, a 46 mila euro per addetto, mentre la produttività ha compiuto un balzo del 36 per cento se misurata in termini di ore lavorate. Migliorata quindi anche la competitività: il costo del lavoro per unità di prodotto, cioè il rapporto tra costo del lavoro per addetto e valore aggiunto per addetto, è passato dal 75-73 per cento nei primi anni Duemila al 67-63 per cento verso la fine del decennio. Lo schema ideato da Volkswagen, durato fino al 2008 e che consentì risparmi sul costo del lavoro di circa il 20 per cento rispetto alle condizioni fissate dal contratto collettivo, fu imitato da tante altre imprese, di dimensioni medie e grandi. In diversi casi ciò ha richiesto anche l’affrancamento dell’impresa dall’associazione datoriale per sottrarsi all’applicazione di contratti collettivi troppo rigidi. La conseguenza è stata anche una forte diminuzione del tasso di sindacalizzazione delle imprese tedesche. Ma il sindacato tedesco non ha soltanto accettato salari più bassi e modelli di produzione più flessibili. Tra il 2003 e il 2005, infatti, con l’approvazione delle leggi ideate sempre da Peter Hartz, il sindacato digerì pure una profonda razionalizzazione del sistema di sussidi sociali e di disoccupazione, oltre a una significativa opera di flessibilizzazione del mercato del lavoro. In particolare, il secondo governo tra socialdemocratici ed ecologisti guidato da Gerhard Schröder diminuì il livello delle prestazioni sociali e accorpò nel sussidio Hartz IV il sussidio sociale e quello di disoccupazione, migliorò gli incentivi legislativi per consentire il reintegro dei lavoratori sul mercato e sdoganò forme contrattuali fino ad allora minuziosamente regolamentate, quali il lavoro interinale (Leiharbeit) e i “Minijob”, lavori atipici da 400 euro al mese. Proprio questi ultimi hanno consentito di ridurre sensibilmente il tasso di disoccupazione. In Italia nemmeno i criteri di erogazione della cassa integrazione in deroga, introdotta nel 2008 e ancora oggi attiva, pur considerati inefficienti, sono stati mai rivisti, nonostante gli annunci fatti anche dall’attuale governo.

di Giovanni Boggero e Marco Valerio Lo Prete, 

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