Logoramento. Il processo che spaventa Napolitano

non è quello di Palermo

Il tentativo di Pd e Pdl di emanciparsi dal Quirinale preoccupa Letta. Il caso Renzi e quel sondaggio a Palazzo Chigi

L’inaspettata decisione della Corte d’assise di Palermo, che ieri mattina ha ammesso la testimonianza di Giorgio Napolitano all’interno del processo sulla trattativa stato mafia, è stata accolta dal Quirinale con un comprensibile velo di insofferenza. Ma nonostante l’amarezza manifestata dal capo dello stato rispetto alla possibilità di ritrovare il suo nome sul banco dei testimoni accanto a quello dei boss Giovanni Brusca, Leonardo Messina e Antonino Giuffrè, oggi il processo che preoccupa di più il presidente non è quello di Palermo ma quello che sta interessando dall’interno i due azionisti di maggioranza del governo, e che sul banco degli imputati vede proprio il capo dello stato. Il processo in questione riguarda un tema delicato, legato a un bilancio di massima del “regno presidenziale” che alcuni tra i più importanti esponenti di Pd e Pdl hanno cominciato a fare durante l’estate, quando la discussione sulla decadenza di Silvio Berlusconi ha scatenato una serie di riflessi incontrollati di Pd e Pdl (con i primi convinti che, sotto sotto, Napolitano voglia in qualche modo salvare Berlusconi; e i secondi convinti che, sotto sotto, Napolitano voglia in qualche modo fregare Berlusconi) e ha rafforzato nella testa dei vertici del centrodestra e del centrosinistra un ragionamento di questo tipo: se oggi il paese si trova in crisi, se oggi il Pd si trova in crisi, se oggi il Pdl si trova in crisi, la colpa è anche di Napolitano.

La guerriglia combattuta attorno alla decadenza del Cav. è stata in realtà solo la punta estrema di un’insofferenza che covava da mesi nel Pdl e nel Pd, e che dopo la rielezione di Re George si è andata a consolidare nel momento in cui la strada delle elezioni anticipate non è parsa più così lontana nel tempo. “E’ evidente – suggerisce un dirigente Pd di fede renziana – che oggi, per ragioni elettorali, Pd e Pdl devono dimostrare di essere indipendenti da Napolitano e devono inventarsi qualcosa per evitare che il logoramento del presidente si rifletta sul consenso dei partiti”. I capi di imputazione mossi soprattutto da sinistra al Quirinale riguardano il triennio di “governo presidenziale” cominciato il 9 novembre 2011, quando il capo dello stato nominò senatore a vita il futuro presidente del Consiglio Mario Monti. Da quel momento in poi, dicono a sinistra, il Pd è stato commissariato dai tecnocrati (accusa renziana), si è attaccato al piede una catena che gli ha impedito di vincere le elezioni (accusa dalemiana), si è visto negare la possibilità di dar vita al famoso governo del cambiamento e scongiurare così un’altra grande coalizione (accusa bersaniana) e si è ritrovato oggi (accusa renziana, dalemiana, bersaniana, prodiana) in una posizione così subalterna al Quirinale da non avere la forza necessaria per chiedere di tornare subito alle urne nel caso in cui improvvisamente la maggioranza dovesse crollare. Ecco. Mettete insieme i puntini e capirete perché le critiche sul dossier amnistia-indulto che sabato scorso sono state scagliate verso il Colle da Renzi volevano suonare anche come un messaggio utile a stabilire con Napolitano un nuovo rapporto di forza.

L’altra grande coalizione

Se a tutto questo si aggiunge la crescita nel centrodestra di un sentimento di diffidenza – sintetizzato due giorni fa da Sandro Bondi, che ha confessato di “avere seri dubbi sull’utilità del ruolo esercitato dal Quirinale” – si capisce come la mozione dei “diversamente napolitaniani” sia diventata trasversale e che giorno dopo giorno si sta trasformando in una grande coalizione potenzialmente alternativa a quella di governo. Una mozione che al momento Enrico Letta non teme più di tanto, la considera minoritaria, ma che in prospettiva, qualora i due primi firmatari (Renzi e Berlusconi) dovessero muoversi all’unisono, potrebbe creare problemi al governo. Il premier sa che la sua forza è direttamente proporzionale alla forza di Napolitano e sa anche che un logoramento del capo dello stato potrebbe coincidere con un progressivo (e letale) logoramento del governo. Ma se i sondaggi contano qualcosa, quello ricevuto lunedì da Letta presenta una curva spietata. Una curva, come conferma al Foglio l’autore del sondaggio (Piepoli), che dice che dall’inizio dell’estate il trend della fiducia di Napolitano è in picchiata. A giugno 82 per cento. A luglio 78. A settembre 77. A inizio ottobre 73. A metà ottobre 67. Sondaggi o non sondaggi, sul percorso delle larghe intese sono sempre di più le prove che indicano che la forza di Napolitano nel tenere a bada i discoli rottamatori del governo è ogni giorno meno consistente. Letta nasconde dietro un sorriso la sua preoccupazione. Ma in cuor suo sa che da oggi in poi il futuro del governo sarà sempre più legato al numero di persone che nei prossimi mesi metterà la propria firma sotto la mozione dei diversamente napolitaniani.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, 18/10/2013

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