Nell’Italia senza eroi da romanzo

i veri personaggi diventano gli autori

C’era una volta la società e c’era una volta anche l’individuo. Sul presente e sul prossimo futuro non faccio ipotesi. Ci provai quasi un quarto di secolo fa, nel 1989, quando mi decisi a parlare di postmoderno: ma la formula usata, benché suggestiva, era piuttosto esagerata. Definivo il postmoderno “una non-società senza individui”. Forse pensavo alla tendenza più che alla realtà, pensavo cioè a qualcosa che si annunciava, che andava oltre il postmoderno, già allora un limone spremuto.

Al di là delle provocazioni e delle esagerazioni, qualcosa comunque tuttora si nota. Basta guardare la scena politica internazionale: a parte Silvio Berlusconi, Hugo Chávez, Barack Obama e Papa Bergoglio, di individui ultimamente se ne sono visti pochi. La cosa curiosa, ora che ci penso (sì, penso sempre a me stesso), è che dopo aver detto che non c’erano più individui mi sono azzardato, in un libro su intellettuali e politica (1997), a parlare di “eroi che pensano”, giocando sull’ambiguità del termine eroe, che significa straordinaria eccezione ma significa anche, semplicemente, personaggio di un’opera letteraria.

E’ chiaro che quando l’individuo è in pericolo, gli intellettuali cercano di ristabilirne la figura, la statura, l’identità storica, il mito, portando come esempio se stessi. Invece della parola “intellettuale”, che rimanda alla categoria, al ceto e al gruppo, pensai in inglese, non so perché, a qualcosa come “the thinking hero”: era meglio ribattezzare l’intellettuale alludendo alla tradizione letteraria e proponendo tre esempi eloquenti: Amleto (l’antipolitico, con il suo “to be or not to be”), Alceste (l’antisociale, il misantropo) e Andrej Bolkonskij (il principe sconfitto di “Guerra e pace”).

Vedo ora che lo spunto viene seriamente ripreso e approfondito con metodo da Stefano Jossa nel suo libro “Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano” (Laterza, 266 pp., 22 euro). A scanso di equivoci, dico subito che Jossa, oggi docente alla Royal Holloway University of London, più che avere letto me, ha letto una grande quantità di autori: ha letto Carlyle e Emerson sugli eroi, Weber sul capo carismatico, gli storici della letteratura italiana da De Sanctis e Croce fino a Dionisotti, Asor Rosa, Ferroni e Luperini, ha letto Eco sul superuomo di massa, nonché diversi studiosi inglesi sul mito di Robin Hood. Nella bibliografia usata da Jossa noto l’assenza di un critico e storico delle idee come Giulio Bollati, autore di un libro che con il tempo cresce di importanza: “L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione”, pubblicato ripetutamente da Einaudi.

Dopo le prime cinquanta pagine, in cui si definisce il tema oscillando fra eroi nazionali e personaggi di romanzo, l’autore si dedica a Foscolo e al suo antieroe Jacopo Ortis, poi a D’Azeglio, Manzoni, Nievo, D’Annunzio, Collodi, De Amicis, Vamba, Pirandello, Svevo, Calvino, Fenoglio, Pratolini, Lampedusa, Camilleri (ma navigando verso il presente la qualità degli autori scade).

L’interesse e l’utilità del libro sono fuori discussione. In particolare per chi insegna all’estero letteratura e cultura italiana, può diventare un’introduzione generale, un vademecum, una guida ai misteri del nostro colorito, proverbiale, indecifrabile paese, diventato tardi nazione e famoso soprattutto per i secoli più remoti e per autori come Dante, Leonardo, Machiavelli, Michelangelo, Galilei (dopo di loro, Garibaldi, Verdi, Pinocchio, Mussolini).

Ho l’impressione che Jossa mescoli troppo due diverse dimensioni della sua indagine: la dimensione dell’eroe nazionale, del capo carismatico che rappresenta un popolo e lo fa sentire unito nella costruzione della propria orgogliosa identità politica; e la dimensione del personaggio letterario memorabile, che però, come i personaggi di Cervantes, Shakespeare, Defoe, Flaubert, Dostoevskij, Kafka, sono memorabili universalmente. Essendo debole, poco influente e lacunosa la nostra tradizione romanzesca, di grandi personaggi ne abbiamo inventati pochi. Quale italiano si identifica con Jacopo Ortis, Andrea Sperelli, Mattia Pascal o Zeno Cosini? Anche i personaggi di Manzoni, di gran lunga i più icastici, sembra che ci riguardino poco: don Abbondio, fra’ Cristoforo, la monaca di Monza, l’Innominato, l’Azzeccagarbugli, non ci piacciono, non li amiamo, non pensiamo a loro. Colpa di Manzoni, narratore poco trascinante benché geniale, o colpa degli italiani, poco versati nella pratica dell’autocoscienza?

Nella storia recente i nostri “uomini rappresentativi” in patria e fuori sono stati Andreotti, Alberto Sordi, Umberto Eco e Berlusconi. C’è qualche narrazione letteraria che abbia raccontato la vera storia di questi individui? Ci sarà in futuro? Siamo sempre allo stesso punto: ci è mancato il romanzo e ormai, mi pare, per trovare un rimedio è un po’ tardi.

Mi lascia perplesso la tesi del libro, secondo cui “il modello eroico elaborato dalla tradizione italiana risponde a principi di antieroismo anziché di eroismo” e l’antieroe, per il vasto pubblico, non è un buon sostituto dell’eroe. Jossa confronta Robin Hood e Guglielmo Tell con i protagonisti di romanzi italiani da Foscolo a Camilleri. Strano confronto. Se si pensa che i più famosi eroi-personaggi dell’Europa moderna, Don Chisciotte e Amleto, sono anche antieroi, si vanifica il problema italiano. Gli antieroi, negli ultimi due secoli, proliferano non solo da noi ma in tutte le letterature, da Oblomov a Gregor Samsa, dal soldato Sc’vèik al Galileo di Brecht e allo “straniero” di Camus. In questo, noi italiani non siamo molto speciali. Siamo speciali in altro: i nostri scrittori hanno inventato pochi grandi personaggi, sono loro i veri eroi e personaggi: Casanova, Alfieri, D’Annunzio, Malaparte, Pavese, Pasolini… e ora Oriana Fallaci e Saviano. Vorrà dire qualcosa? Dite voi che cosa.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Alfonso Berardinelli

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