Riforme FI, ecco le nostre condizioni

Altro che modifica dell’art. 138. Le larghe intese sono saltate,

e con loro la volontà pacificatrice. I saggi galleggiano sul nulla e cincischiano sul metodo. Veniamo al merito, con una commissione e un referendum. Oppure arrivederci

Da più parti si chiede a Forza Italia quale sarà il suo atteggiamento sulle riforme costituzionali adesso che è stata revocata la fiducia al governo. La domanda è legittima, benché da parte di alcuni venga brandita per metterci in difficoltà e magari addebitare a noi una paralisi sulle riforme che è politica prima che tecnica. E allora mettiamo in chiaro un paio di cose. Il cammino delle riforme, così come delineato, all’indomani della fiducia al governo Letta, si fondava su una chiara premessa politica: l’accordo storico tra le due principali forze che si sono contese il governo negli ultimi vent’anni. Quell’incontro che abbiamo denominato larghe intese esprimeva innanzitutto la volontà di collaborare lealmente tra pari sulla base di un riconoscimento dell’altrui dignità politica e di uno sforzo che è stato definito di pacificazione nazionale. A quell’impegno, morale prima ancora che politico, si accompagnava un programma articolato su due gambe: una politica economica coraggiosa e un percorso di riforme istituzionali di fiduciosa convergenza sulla base delle risultanze del lavoro dei saggi nominati dal ministro per le Riforme costituzionali. Quel che è stato di quegli impegni è chiaro a tutti. E dalle larghe intese si è passati a una “maggioranza residua”. La svolta in politica economica non c’è stata, ma si è continuata ad applicare la vecchia regola del tassa e spendi, camuffata dietro provvedimenti opachi e confusi, che persino l’Europa, non certo prevenuta verso il governo Letta-Saccomanni, ha bocciato platealmente. Inutile dire che, a oggi, il destino dell’Imu è tutt’altro che definito, mentre l’unica cosa certa è che la brama di tassare il patrimonio degli italiani non è per nulla tramontata. Sulle riforme istituzionali, invece, siamo praticamente a zero. I saggi, molto saggiamente, ci hanno detto che sulle questioni più spinose e anche più importanti nemmeno tra di loro sono d’accordo (ovviamente, visto che il problema è politico e non tecnico), consegnandoci un documento “a risposta multipla”, aperto cioè a svariate soluzioni.

Nel frattempo si è predisposto un percorso di “pre-riforma” costituzionale per modificare l’art. 138, accelerare un po’ i tempi e consentire, se mai si arriverà alla fine, che il popolo, se vuole, possa comunque pronunziarsi sulle riforme adottate.

Insomma si è parlato di metodo e si è divagato sul merito. Con la conseguenza che a otto mesi dalla nascita del governo, i cittadini non sanno ancora in quale direzione si vuole andare.

A tutto ciò si deve aggiungere che quel clima di fiducia sul quale si era cercato di costruire l’alleanza di governo è totalmente tramontato. La pacificazione si è trasformata nella giustizia sommaria che abbiamo visto andare in scena qualche giorno fa in Parlamento, con il macabro pendant dei barbari brindisi di qualche troglodita per le strade. E le larghe intese sono andate in frantumi sullo scoglio di una Legge di stabilità che per carità di patria è meglio non commentare più.

In questo quadro, si può veramente pensare che il problema delle riforme costituzionali sia la riforma dell’art. 138? Riforma peraltro inutile perché se si vuole rendere obbligatorio il referendum lo si può prevedere anche nella stessa legge di riforma qualora essa venisse approvata a maggioranza dei due terzi (le tecniche non mancano alla fantasia dei giuristi).

Veramente si può pensare che dopo trent’anni di dibattiti, bicamerali, comitati, convenzioni, saggi e compagni, il problema sia il metodo e non il merito?

Parlare di metodo poteva avere un senso nella prospettiva che il clima di fiducia e convergenza nazionale consentisse di far maturare delle soluzioni condivise. Oggi di condiviso rimane ben poco, se persino dentro il Pd Cuperlo e Renzi litigano sul modello costituzionale.

Il problema è il merito, non il metodo. E l’unica cosa chiara è che il Parlamento sul merito non riesce a decidersi. Una larga convergenza non c’è, una convergenza minima sarebbe politicamente troppo debole e non reggerebbe l’urto delle contestazioni.

Se dunque si vuole parlare di metodo, ce n’è solo uno che oggi possa avere senso e che, peraltro, fece capolino anche nella commissione nominata da Napolitano. Si mettano in fila le questioni dibattute (forma di governo, riforma della giustizia, princìpi sulla legge elettorale, ipotesi di bicameralismo differenziato) e si sottoponga la scelta al corpo elettorale con un referendum, quello sì, che avrebbe un valore costituente.

Sarebbe un atto di onestà intellettuale delle forze politiche, le quali non sono in grado di prendere una decisione che non sia pasticciata e “al ribasso”. Per i rapporti di forza in Parlamento, per la trasversalità delle divisioni, per la frammentazione delle forze.

A questo punto non è bene perseverare nella finzione. Non possiamo trincerarci dietro quelle che apparirebbero all’opinione pubblica solo delle ipocrisie per tirare a campare. Per questo è necessario che il dibattito si sposti nel paese. Votare sì alla modifica del 138 significa perpetuare questa ipocrisia. Significa promettere un referendum futuro, negando un referendum oggi. Non possiamo permetterci questa contraddizione, per giunta su una questione di procedura, che i cittadini non capirebbero.

Il Parlamento non può permettersi di apparire oggi blindato per poi dimostrarsi domani diviso, come inevitabilmente sarà. Lasciamo perdere questa strada e investiamo subito i cittadini del potere di scegliere su qualcosa che conta, anziché promettere loro solo un potere futuro di ratificare.

La Repubblica ha bisogno di voltare pagina? Si faccia un referendum sulle opzioni istituzionali e si elegga una commissione costituzionale che rediga le norme costituzionali sotto il vincolo della scelta referendaria.

Noi, per quanto ci riguarda, saremo per il presidenzialismo alla francese, la riforma della giustizia, la fine del bicameralismo e una drastica riduzione dei parlamentari. E crediamo su queste posizioni sia possibile una convergenza anche con le aree più avanzate del centrosinistra. Chi non è d’accordo, faccia altre proposte e alla fine, il popolo voti. E’ la democrazia bellezza.

di Renato Brunetta, capogruppo del Pdl alla Camera

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