La Costituzione-gabbia che umilia

qualsiasi velleità decisionista

Alla vigilia del nuovo discorso programmatico di Enrico Letta, nel quale il presidente del Consiglio dovrebbe rilanciare un’azione di governo finora giudicata poco incisiva da più parti, cresce la schiera dei commentatori che si domandano perché anche l’Italia non possa avere il suo Charles de Gaulle, un leader capace di imprimere una traiettoria nuova al paese e riscattarlo dalle miserie della quotidianità. E’ l’archetipo del dictator, l’uomo con carta bianca che salva la patria e poi, romanticamente, torna al suo frugale campicello senza nulla chiedere in cambio, salvo la gloria e la riconoscenza sempiterna dei posteri. Naturale che il desiderio di un dictator postmoderno faccia nuovamente capolino in Italia e si manifesti, in toni e modi garbati, per il tramite di alcuni editorialisti. A spiegare questo sentimento sono anzitutto i tempi grami che opprimono un’economia già malandata e il crepuscolo dei grandi partiti. A ciò s’aggiunge un crescente senso di frustrazione nel constatare che anche chi stava peggio di noi, la Spagna, sta risollevando il capo a suon di sacrifici e riforme. Eppure, proprio nella terra che ha in Cincinnato uno dei primi esempi di uomo forte e salvatore della patria, sembra che l’uomo forte sia impossibile da riprodurre. Negli ultimi vent’anni abbiamo infatti alternato numerosi governi e primi ministri – Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta – ed è molto difficile ascrivere loro riforme “profonde”. Ciascuno ha tentato di governare ma o ha avuto vita breve o si è adagiato in un rassegnato non fare, nel migliore dei casi provando a non vessare i contribuenti già esausti. Un accorgimento, quest’ultimo, che gli ultimi ministri tecnici hanno cominciato a disattendere sistematicamente, azionando la leva tributaria. A ogni buon conto, quale che sia il giudizio che si può avere dei singoli premier, pare quantomeno strano che, nella loro totalità, si tratti di inetti. Più facile che ciascuno di essi, anche il più navigato, abbia fatto i conti con un’architettura istituzionale – gli economisti parlerebbero di governance – problematica.

La nostra Costituzione, che disegna tale architettura, sarà anche la più bella del mondo, ma è un prodotto del secondo Dopoguerra. Come tale, riecheggia uno dei principali scrupoli di chi la progettò, l’assoluta necessità di evitare decisioni rapide e forti. Il che, oggi, è un bel problema. Stiamo ancora attraversando una crisi economica prolungata e abbiamo problematiche di lungo termine come l’impatto di una popolazione senescente sulla spesa pubblica, con inevitabili ripercussioni negative sulla spesa socio-sanitaria. Non solo la nostra governance istituzionale non consente di prendere decisioni forti per rimediare a questi problemi, ma addirittura ne amplifica la portata. Si prenda la spesa sanitaria, che, affidata alle scarse capacità manageriali delle regioni, fa sì che una struttura demografica con caratteristiche analoghe a quelle degli altri paesi europei produca effetti economici ampiamente peggiori. La stessa allocazione della spesa sanitaria in capo alle regioni anziché allo stato centrale è poi alla base di una delle pagine più imbarazzanti di questi mesi: i pagamenti dei debiti pregressi della Pa. Che, da elemento virtuoso degno di un paese che vuole chiudere con il passato e pagando i propri debiti ridare slancio all’economia, si è tradotto in un labirintico rimpallo tra ministero dell’Economia ed enti locali. Un altro esempio degno di nota è il Titolo V della Costituzione, che nella sua attuale formulazione fa sì che i progetti infrastrutturali o nei trasporti e nell’energia si impantanino davanti a una pletora di interlocutori dello stato centrale e periferico, in un sistematico allungamento di tempi che priva una parte del paese di infrastrutture. E’ il caso di dirlo: su sanità, energia, trasporti e infrastrutture, la nostra Costituzione è un “amplificatore di inefficienza” di rara potenza. Poi, ovviamente, ci sarebbe la giustizia, uno cioè degli elementi che fanno rotolare l’Italia in fondo alle classifiche di competitività a causa della durata dei processi. Un dato misurabile, questo, che si cumula con quello non meno vistoso delle continue “invasioni di campo” tra poteri dello stato, dell’incrinarsi della separazione dei poteri, e del problematico rispetto del gioco di pesi e contrappesi alla base del pensiero democratico occidentale. Quelli appena sorvolati sono nodi, quelli sì, “strutturali”, che richiedono di essere affrontati dal governo o, se non ne ha la forza o i numeri, tramite referendum. Altrimenti evocare il dictator non ha senso, e i prossimi governi erediteranno la stessa gabbia dei loro predecessori. La gabbia più bella del mondo, s’intende, ma pur sempre una gabbia.

FQ. Di Francesco Galietti, 10 dicembre 2013 - ore 15:00

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