Giavazzi, i sussidi pubblici sempre in aumento

e l’inutile fissa di Letta col “3%”

Pessimista sulle chance riformatrici del governo Letta? Francesco Giavazzi è più che pessimista: “Questo governo ripete tutti i giorni che intende rispettare il parametro del 3 per cento per il rapporto deficit/pil. Ma allo stesso tempo dimostra tutti i giorni di non voler tagliare la spesa pubblica e di non voler fare le riforme”. Così però la strada cambia pendenza, dice al Foglio l’economista della Bocconi, e la salita è assicurata: “Già quest’anno il risultato sul deficit non è certo. Se il pil sale meno delle attese, cioè meno dell’1,1 per cento, sforiamo”.

Giavazzi, che è anche editorialista del Corriere della Sera, riconosce che l’arte di governare è “difficile”, ma non accetta di passare per il professore un po’ tra le nuvole che – dalla sua cattedra – se la prende con Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni alle prese col mondo reale. La sua sfiducia sull’esecutivo di oggi è ben ponderata, nasce per esempio da un paio di tabelle che l’economista compulsa da mesi e aggiorna nei ritagli di tempo con l’aiuto di ex colleghi volenterosi di Via XX Settembre: si tratta dei numeri sui sussidi pubblici alle imprese, quelli che l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, lo incaricò di censire nell’aprile 2012. Censimento completato nel luglio di quell’anno, con questo risultato: i trasferimenti dal settore pubblico alle imprese ammontavano a oltre 30 miliardi di euro nel 2011; quelli alle “imprese in senso stretto”, cioè a società che operano sul mercato, a quasi 10 miliardi l’anno. Abrogandoli, e riducendo la pressione fiscale dello stesso ammontare – scrisse Giavazzi – si sarebbe potuto portare a casa un aumento di pil dell’1,5 per cento in due anni. Perciò da quel momento, nei corridoi ministeriali e nei retroscena giornalistici, non si è più smesso di parlare di un taglio ai sussidi in cambio di un taglio delle tasse. Stesso schema resuscitato in occasione del “consistente” taglio al cuneo fiscale annunciato dal governo e poi realizzato solo in minima parte.

Mentre se ne parla, però, i sussidi non diminuiscono, anzi crescono: “Così pare”, dice Giavazzi. Infatti, se nel 2011 la somma di “trasferimenti correnti” e “contributi agli investimenti” del solo stato centrale (senza regioni ed enti locali) per le imprese era pari 15,7 miliardi, nel 2012 la somma erogata è rimasta pressoché identica. “Con una differenza, secondo la Ragioneria di stato: sono aumentati i trasferimenti correnti, da 5 a 5,9 miliardi, sono diminuiti gli investimenti, da 10,6 a 9,7 miliardi. In via di principio, invece, gli investimenti sarebbero più utili per la crescita”. Tuttavia tagliare spesa corrente solleva opposizioni certe, mentre ridurre investimenti è politicamente meno doloroso, e così si è percorsa la seconda strada. Giavazzi poi – pur accantonando per esempio i fondi pubblici alle già pubbliche Rai, Poste, Ferrovie dello stato, Enav – aveva ipotizzato la soppressione iniziale di 5,228 miliardi. Invece anche i finanziamenti “eliminabili” sono aumentati, perlomeno se si contano in questa categoria gli 851 milioni aggiuntivi erogati nel 2012 alla voce “restituzione compensazione oneri gravanti sugli autotrasportatori”, i 200 milioni al “sistema creditizio”, i 103 milioni per il “fondo per la diffusione media in ambito locale”, il “fondo opere strategiche della Cassa depositi e prestiti” (da 374 a 747 milioni), il “fondo opere strategiche per altre imprese” (da 211 a 305 milioni). “Si può obiettare che non tutte queste voci siano da eliminare e che alcune corrispondano di fatto a sgravi fiscali, ma l’andamento è quello che è”, dice Giavazzi. I dati sul 2012 desunti dal Documento di Economia e Finanza del 2013 – occorre precisarlo – vanno attribuiti alla gestione Monti.

Il problema è che anche l’esecutivo Letta, a una prima lettura della Legge di stabilità approvata in Parlamento, non può certo vantarsi di avere cambiato direzione: “Lo dimostra un taglio proposto di 60,2 milioni ai ‘trasferimenti correnti in favore di imprese’ per il 2014, mentre io proponevo tagli di 2-3 miliardi l’anno”, dice Giavazzi. E meglio allora non far notare che anche quel mini taglio, dopo il passaggio parlamentare, si è ridotto a 45 milioni.

Renzi alla prova dei mercati, non di Bruxelles

“Cambiano i governi, ma la burocrazia che gestisce queste risorse, con annesso potere politico, continua a resistere. Così i tagli nemmeno si discutono, né le eventuali conseguenze positive in termini di alleggerimento fiscale. Questo è il segnale davvero allarmante”. La priorità, secondo l’economista della Bocconi, rimane sempre la stessa: abbassare le tasse e il livello della spesa pubblica, “dopodiché siamo pieni di persone capaci, come Giarda o Vieri Ceriani, di riallocare in maniera ottimale le poste di bilancio”. Se il governo Letta non sembra all’altezza, chi dice che il neosegretario del Pd, Matteo Renzi, sia destinato a fare meglio? “Sulla riforma del mercato del lavoro Renzi ha un approccio condivisibile, tuttavia anche lui sulla spesa pubblica è titubante. Continua a parlare di 1 miliardo di tagli dei costi alla politica, ma a noi serve una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi, cioè quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco”. Ammesso che si vogliano rispettare i vincoli Ue sul deficit, per i necessari 23 miliardi di copertura non basterebbero nemmeno tutti i tagli da lei suggeriti ai sussidi pubblici: “A Bruxelles andrebbe presentato un piano di tagli già approvati dal Parlamento, graduali, in 2-3 anni, per coprire un forte alleggerimento fiscale subito. Anche a costo di sforare il tetto del 3 per cento. Così si può tornare a crescere riducendo la spesa pubblica. Questo sentiero sì che è blindato, perché non ce lo indicano gli euroburocrati ma gli stessi mercati”. 

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