Egemonia culturale della sinistra

La controffensiva dei non conformisti

È ora di sgomberare un vecchio macigno ideologico dal cammino verso la rinascita della cultura italiana: quello secondo cui la cultura è di sinistra.

Oggi non si capisce nemmeno più che cosa voglia dire essere di sinistra e persino l’invito di Nanni Moretti a Massimo D’Alema a “dire qualcosa di sinistra” è inapplicabile perché privo di significato.

Di fatto, oggi “essere di sinistra” significa condividere non dei progetti, ma dei sentimenti, un comune cantare, un comune indignarsi a comando, una comune pigrizia.

L’equivoco nasce dal fatto che in un tempo ormai remoto la sinistra coincideva nel secolo scorso con la rivoluzione sia politica che nelle arti contro il conformismo, i pregiudizi e le accademie. Tutta la rivoluzione che un secolo fa rispedì a casa l’arte accademica con il cubismo e la lezione di Duchamp, era di sua natura sorprendente, scandalosa, ruvida.

Tutto ciò che oggi viene considerato di sinistra nelle arti visive e nello spettacolo, invece, raramente sfugge alle regole del conformismo più piatto.

Nessuno mi toglierà dalla testa che il successo anche internazionale della “Grande Bellezza” (una storia immaginaria di napoletani a Roma molto diversi dai veri napoletani romanizzati come Raffaele La Capria o Ruggero Guarini) sta nel fatto che in questo film si propina una versione terrazzata della cafonaggine a buon mercato dove si compie un rito consacrato di antiberlusconismo religioso.

Essendo io nato cresciuto e vissuto a Roma, vedendo quel film ho avvertito più che il falso, il vizio dell’accomodamento sul cliché, il viatico della strizzata d’occhio. Si può dire, e anzi si deve dire, che la destra italiana non ha fatto molto per svincolarsi dallo stretto abbraccio di un conformismo “di sinistra” che viene da molto lontano, limitandosi a dare segnali di nervosismo non sempre composto di fronte ad una egemonia datata e radicata, da cui però derivano cose molto concrete come i finanziamenti, l’attività di molte case editrici e alcune carriere universitarie e persino un certo numero di borse di studio riservate alla buona borghesia di sinistra, la nostra versione della “gauche caviar” francese.

Di sicuro, lamentarsi di questo stato delle cose non basta. Denunciare banalità, cliché, luoghi comuni e conformismi è importante, ma non è sufficiente. Né è utile secondo me tentare di creare una cultura “di destra” dalle incerte radici. Ciò che si può fare invece, per liberarsi dallo stretto abbraccio del conformismo, è adottare come segno distintivo la rottura, la denuncia di quel che oggi è “accademia”, proteggendo, dando voce e spazio, a tutto ciò che è “off” non soltanto formalmente, come una griffe, ma che resta fuori dal circuito aulico e approvato, ciò che è estromesso in nome del conformismo.

In questo senso credo che un giornale “off” non si debba porre come missione quella di creare o immaginare una cultura, o un’arte visiva o spettacolare che non c’è, ma diventare la Tortuga, il covo dei pirati interdetti, l’isola dei rifugiati che creano una nuova base per progettare il ritorno sulla scena culturale, non importa in nome di quali etichette (meglio nessuna) da cui gli artisti sono stati oscurati, messi nel cono d’ombra, castigati per aver osato o per non essere omologati e omologabili.

Penso che questo sia il punto di partenza di cui lo spazio “Off” può diventare la base per la controffensiva dei non conformisti, in vista di una speranza: quella di riconquistare alla libertà la cultura tutta e mandare all’aria lo schema dei nuovi tartufi accademici, immancabilmente conserva. OFF, 16.1.2014, Guzzanti

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