Poste, è la peggiore privatizzazione della storia

Italiana. Ragioni liberiste per sconsigliare di mettere

sul mercato un’azienda (sussidiata) che è mezza posta e mezza banca

Dove sono finiti quelli che “privatizzazioni e liberalizzazioni sono cose diverse”? Qui-e-ora ci sarebbe un tremendo bisogno di ripeterlo: la “privatizzazione” di Poste Italiane, per come è disegnata, sembra un pessimo affare per lo stato, per l’azienda e per il paese. Piuttosto che andare avanti così, meglio fermarsi. Il problema non è solo la discutibile scelta di mantenere il 60 per cento pubblico: sta, piuttosto, nella natura dell’operatore dominante e nel contesto normativo in cui si colloca. Come spiega Ugo Arrigo, “la redditività delle Poste si basa su tre pilastri: compensi pubblici per la raccolta del risparmio, compensazioni pubbliche per il servizio universale e il fatto di svolgere servizi bancari utilizzando personale che gode di un contratto molto meno favorevole di quello dei bancari”. La coesistenza di questi tre pilastri è garantita dalla proprietà pubblica. La conseguenza, però, è che, guardando il gruppo di Massimo Sarmi, si fissa un animale mitico che sopravvive in un habitat del tutto innaturale. Extraprofitti ed extracosti si compensano e sono compensati in quanto tutti i flussi sono in qualche modo interni al settore pubblico. Come tali sono, erroneamente, tollerati: ma per sbloccare la situazione – nell’interesse dell’apertura del mercato postale e di nuove opportunità di crescita – serve null’altro che una decisione politica.

Nel momento in cui l’azienda viene parzialmente ceduta, però, chi compra lo fa a determinate condizioni: con due conseguenze rilevanti. Primo: rimuovere o rimodulare i sussidi e le altre protezioni legislative farebbe sorgere proteste, in parte giustificate, di chi, in fondo, quei sussidi e quelle protezioni ha pagato per ottenerle. Liberalizzare, dunque, non sarebbe più una mera scelta politica, ma avrebbe effetti diretti sul valore in Borsa di un’azienda quotata. Secondo: la duplice natura di Poste, mezza banca e mezza posta, impedisce al mercato di prezzarla correttamente. Inoltre dà luogo a un sussidio incrociato tra le attività postali (in perdita, e remunerate dalle compensazioni per il servizio universale) e quelle banco-assicurative (in utile, anche perché si appoggiano alla rete di sportelli più capillare che ci sia). “Quando si dovesse avviare un processo di consolidamento – ha scritto Franco Debenedetti – le Poste sarebbero un ircocervo tagliato fuori da ogni fusione. E se l’unbundling dovesse avvenire in quel momento, il plusvalore che il mercato attribuisce alla somma delle parti andrebbe a vantaggio degli azionisti del 40 per cento”. Il fragile equilibrio da cui dipende la redditività di Poste si regge sul permanere di favorevoli condizioni politiche: l’opacità nei trasferimenti intragruppo, i sussidi pubblici (inclusa l’esenzione Iva), la generosa convenzione con Cassa depositi e prestiti (che infatti Sarmi ha chiesto di rinnovare, come “condizione” per la privatizzazione). Una buona privatizzazione deve inevitabilmente venire dopo la soluzione di questi nodi concorrenziali (come chiede da anni, inascoltato, l’Antitrust): cioè la divisione di Poste da Bancoposta e la piena liberalizzazione del settore. Altrimenti rischiamo di osservare il mero trasferimento di un monopolio pubblico in mani private, con l’assenso del sindacato dominante (la Cisl) che si aspetta di capitalizzare sulle quote gratuite per i dipendenti e delegate, dal punto di vista dei poteri di voto, al sindacato stesso. Col risultato di rendere 150 mila lavoratori doppiamente partecipi alla rendita, e dunque creare una sorta di constituency elettorale anti privatizzazione totale e anti riforme.

Il governo sta costruendo la peggior privatizzazione della storia italiana, nel silenzio – distratto o complice – di quelli che sempre puntano il dito contro i presunti mali delle privatizzazioni. Tocca ai liberisti dire “not in my name”.

FQ. di Carlo Stagnaro

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