Primarie del lavoro. I sindacati italiani si litigano

la concertazione, i tedeschi la produttività

I casi Electrolux e Fiat, lo scontro tra Camusso e Landini, uno studio tedesco sui sacrifici (di successo) dei lavoratori

I 550 mila lavoratori del settore chimico in Germania hanno raggiunto ieri un accordo collettivo con le controparti imprenditoriali (tra cui i colossi Basf e Bayer) che prevede un aumento del 3,7 per cento del salario nei prossimi 14 mesi. Meno del 5,5 per cento chiesto dai sindacati, ma sufficiente a far parlare gli analisti inglesi di Barclays di un “segnale forte” per gli altri settori: la certificazione del lento ma progressivo allontanamento dagli anni della robusta moderazione salariale in Germania. In Italia, invece, proprio ieri è stato sospeso l’incontro tra Fiat e sindacati all’Unione industriali di Torino: i rappresentanti dei lavoratori che accettarono i contratti aziendali à la Marchionne, ora non ritengono ammissibile la chiusura del Lingotto a ogni aumento di stipendio per gli 85 mila dipendenti del gruppo. Nel caso ancora differente dell’Electrolux, la retromarcia dell’azienda svedese e l’impegno a conservare la produzione in Italia (anche nello stabilimento di Porcia) non ha convinto i sindacati a trattare su riduzione dei salari e rivisitazione delle modalità di lavoro.

I settori e le aziende considerate sono in condizioni diverse, ben inteso, tuttavia mai come in queste ore si torna a registrare in maniera plastica la distanza tra il sindacalismo tedesco e quello italiano. In questi giorni, infatti, in Germania fa molto discutere uno studio accademico dalla tesi solo apparentemente ardita: dietro l’impennata di produttività che ha trasformato Berlino da “malato d’Europa” (alla fine degli anni 90) a “locomotiva del continente” (in questi anni di crisi globale), non ci sarebbero infatti le ormai note riforme dell’èra Schröder, bensì l’autonomia contrattuale di imprese e sindacati che avrebbe agevolato riorganizzazioni da parte della aziende e concessioni (dolorose) da parte dei lavoratori. Sui giornali italiani, invece, se si esclude il clamore dei tavoli di crisi aperti di volta in volta, prevalgono le schermaglie interne alla Cgil, tra il segretario generale Susanna Camusso e il rampante segretario generale della Fiom-Cgil Maurizio Landini, i dissapori tra i due e poi quelli con i sindacati cosiddetti “riformisti”, sul ruolo che la contrattazione nazionale e gli accordi aziendali debbano avere nel nostro paese. Il mito della concertazione, quindi della politica economica da concordare quanto più possibile assieme a Confindustria e governo, si è tutt’altro che eclissato.

Negli scorsi giorni il quotidiano online Pagina99 aveva parlato di “processo a Landini” intentato dalla Camusso in seno alla Cgil. Ieri il Fatto quotidiano, in un articolo a firma di Salvatore Cannavò (già deputato dissidente di Rifondazione comunista fino al 2008), ha pubblicato la lettera del segretario della Cgil indirizzata al Collegio statutario del sindacato, nella quale Camusso chiedeva se fosse “coerente e consentito”, ed eventualmente “sanzionabile”, l’atteggiamento di Landini. Quest’ultimo, contrario all’intesa sulla rappresentanza aziendale siglata il 10 gennaio scorso con Confindustria e gli altri sindacati, si è detto pubblicamente non vincolato dalle scelte della Cgil, prima vuole consultarsi con i delegati Fiom. Nessun processo, ha risposto ieri la Cgil, visto che questo andrebbe fatto in sede di Commissione di garanzia, ma solo la ricerca di un chiarimento in base allo Statuto. Ma intanto Landini rilancia e vede Matteo Renzi.

Ieri mattina il segretario generale della Fiom, volto duro e sempre più televisivo della Cgil (a partire dai referendum di fabbrica in Fiat del 2010-2011, persi), ha incontrato infatti Renzi. Il presunto “asse” tra i due è un altro dei fattori che agitano il sindacato di Corso Italia. Ieri Landini e Renzi hanno parlato del Jobs act del Pd per riformare il mercato del lavoro. Il segretario della Fiom dice che “ci sono delle proposte e c’è un confronto aperto”, gradisce l’intenzione di Renzi di legiferare sulla rappresentanza aziendale (quindi potenzialmente scavalcando l’accordo raggiunto dalla Cgil con Confindustria e sindacati), apprezza l’enfasi su investimenti e politica industriale, perciò apre perfino all’allentamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui nuovi contratti. Landini, così, intende rottamare l’attuale concertazione con Giorgio Squinzi e Susanna Camusso (tutt’altro che nelle grazie del segretario del Pd). Non per cambiare del tutto metodo, ma quantomeno per guadagnare voce in capitolo. Rottamazione fuori dalla Cgil ma anche dentro, visto che si parla sempre più di una possibile corsa di Landini per succedere alla Camusso.

Su questo punto, però, il parallelo tra i due rottamatori, Renzi e Landini, potrebbe essere fin troppo stretto. Infatti il primo è nel difficile e duplice ruolo di segretario del Pd, cui appartiene l’attuale presidente del Consiglio, Enrico Letta, e di fustigatore esterno dell’esecutivo. Landini, in maniera simile, vuole distanziarsi da Camusso, ma nello scorso novembre – fanno notare fonti sindacali – ha pur sempre firmato il documento “Il lavoro decide il futuro”, cioè quello di maggioranza di cui prima firmataria è la Camusso. E visto che il Congresso nei posti di lavoro è già cominciato, sarà anche tecnicamente difficile – da qui fino alla conclusione di inizio maggio – distanziarsi troppo e poi magari presentare una candidatura alternativa per la segreteria.

Di tutt’altro tipo sono le discussioni di questi giorni, sui media tedeschi, a proposito dei sindacati locali. L’attenzione maggiore è per un paper pubblicato di recente sul Journal of Economic Perspectives da quattro economisti tedeschi: Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schönberg e Alexandra Spitz-Oener. I quattro contestano l’idea che all’origine del miracolo economico tedesco degli ultimi anni ci siano state le riforme Hartz, approvate tra il 2003 e il 2005 durante il secondo governo del cancelliere socialdemocratico Schröder. Non la politica, bensì l’autonomia contrattuale di imprese e sindacati avrebbe agevolato il fenomeno di moderazione salariale e i conseguenti recuperi di produttività. Gli autori partono dalla considerazione per la quale, sin dalla metà degli anni Novanta, un vasto numero di imprese tedesche, in particolare quelle manifatturiere, ha smesso di applicare i contratti collettivi di settore, spostando la contrattazione a livello decentrato e cioè sul piano aziendale o addirittura individuale. Secondo i dati dei quattro economisti, tra il 1995 e il 2008 la percentuale di imprese che applicano i contratti collettivi è passata dal 76 al 58 per cento. Stando a stime dell’Institut der deutschen Wirtschaft di Colonia (IW), riportate dal Foglio già nel 2011, a oggi sarebbero circa metà le imprese dell’Ovest e tre quarti le imprese dell’Est a non applicare più il contratto collettivo di settore. Ma c’è di più. Anche laddove il contratto collettivo di settore è rimasto in vigore, le parti sociali ne hanno aggirato i termini, concordando “clausole di apertura” che consentono la deroga dei contratti di settore a livello aziendale. Questa rivoluzione contrattuale dal basso è stata resa possibile innanzitutto dalla garanzia costituzionale che impone alla politica di non interferire nell’autonomia contrattuale delle parti sociali (Tarifautonomie).

In Francia e in Italia, spiegano gli autori, una simile rivoluzione sarebbe difficilmente replicabile su base spontanea, dal momento che spetterebbe innanzitutto al legislatore modificare le norme che vincolano le imprese all’applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore. In Germania, invece, è stato sufficiente che le parti sociali si accordassero. Resta da capire per quale ragione il sindacato abbia accettato condizioni non esattamente vantaggiose per molti lavoratori. Secondo i quattro studiosi, dopo la riunificazione tedesca, i costi per finanziare la ricostruzione dei Länder dell’Est furono sopportati soprattutto dalle imprese dell’Ovest. A un certo punto, complice l’apertura dei mercati dell’Est europeo e pena il rischio di una delocalizzazione di massa, i sindacati giunsero a un compromesso con gli imprenditori: maggiore flessibilità contrattuale (per orari di lavoro e paga) in cambio di una conservazione dei posti di lavoro. Il risultato è stato un forte recupero di produttività. Per imitare il successo tedesco, gli stati europei in difficoltà non dovrebbero insomma guardare tanto alle riforme Hartz, bensì al nuovo modello di relazioni industriali inaugurato negli anni 90. A patto che sindacati e imprenditori, prim’ancora che la politica, si muovano in quella direzione.

di Giovanni Boggero e Marco Valerio Lo Prete, © - FOGLIO QUOTIDIANO, 6 febbraio 2014 - ore 06:59

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