Si fa così e basta. Schröder si racconta e spiega

i segreti del leader di una sinistra riottosa

“Bisogna dire quel tanto che basta per avere una maggioranza e poi procedere lesti, se si vuole far passare una riforma indigesta”, consiglia Gerhard Schröder, ex cancelliere socialdemocratico tedesco, nell’autobiografia “Klare Worte” (“Dire le cose come stanno”, editore Herder Vlg.) da oggi nelle librerie tedesche. E’ il racconto-manifesto di un politico di sinistra e di polso, un uomo di potere capace di mediare ma anche di incaponirsi, di amare i soldi e i sigari e le idee rivoluzionarie. Il modello Schröder resta un punto di riferimento per la sinistra europea: a Parigi il presidente Hollande si infastidisce se glielo si ricorda, ma le riforme dell’ex cancelliere sono spesso portate come riferimento di una sinistra che vuole innovarsi (quando è andato a Berlino, Matteo Renzi non ha incontrato Schröder). Il pacchetto di riforme Agenda 2010 ancora oggi è discusso tra i compagni dell’Spd che non hanno mai smesso di ridimensionarlo (tra questi l’attuale ministro del Lavoro Andrea Nahles) ma la cancelliera Angela Merkel, cristiano-democratica, lo loda. Schröder, reso clemente dai suoi 70 anni (li compierà in aprile), oggi ammette: “E’ giusto che si vogliano apportare cambiamenti, non sono i dieci comandamenti e io non sono Mosè”.

C’è anche un altro importante insegnamento che chi si appresta a governare con un partito riottoso come quello dell’Spd (ma riottosi lo sono tutti i partiti socialdemocratici) deve tenere a mente: sottoporre al Parlamento riforme che potranno anche non avere i voti di tutta la maggioranza, ma in compenso avranno quelli dell’opposizione: così ha fatto Schröder per l’Agenda 2010, così ha fatto Merkel per la politica europea. Questa strategia e le riforme del mercato del lavoro gli erano valse il soprannome di “der Genosse der Bosse” (il compagno degli imprenditori), appellativo che non l’ha mai irritato, anzi, viste le sue umili origini e quel piacere cresciuto negli anni per le cose raffinate: gli abiti Brioni, i sigari Cohiba, i vini pregiati, le belle donne (le questioni di cuore, è al terzo matrimonio, le aveva saggiamente regolate prima delle elezioni del 1998, quando vinse contro Kohl).

Nel libro, Schröder racconta del salario minimo, che lui stesso avrebbe voluto introdurre, ma allora i tempi non erano maturi: l’Unione aveva la maggioranza al Bundesrat e non solo non avrebbe mai votato a favore del salario minimo, ma si rischiava di indispettirla inutilmente e di bloccare tutto il pacchetto di riforme (neppure ai sindacati il salario minimo per tutti piaceva: temevano di perdere l’autonomia nella definizione dei contratti nazionali). Genosse der Bosse non è però l’unico appellativo di Schröder. Ce ne sono altri due: Medienkanzler, per un rapporto soprattutto agli inizi molto affiatato con la stampa (“un grande errore”, ammette oggi) e quello di “Basta Kanzler”. Non è che Schröder fosse un cancelliere di poche parole, gli piaceva anche il confronto, soprattutto con economisti, intellettuali (“Grass resterà per me sempre uno dei più importanti scrittori tedeschi, indipendentemente dalle poesie sconclusionate che scrive ultimamente”). Meno entusiasmo gli provocavano i dibattiti interni al partito. Ed è in quell’ambito che più di un compagno ha sperimentato lo Schröder arrogante, sicuro di sé, e capace di dire a un certo punto “si fa così e basta”.

Determinazione, decisione e sfrontatezza: ecco la ricetta. Lo sanno bene a Bruxelles. Schröder riporta parte del discorso che aveva fatto nel marzo del 2003, quando la Germania per prima infranse il Trattato di Maastricht. “Non è vero che per colpa nostra Maastricht è diventata carta straccia. Avevamo però avviato le riforme strutturali che non erano a costo zero”, spiega Schröder. L’allora ministro delle Finanze Hans Eichel voleva rispettare il patto con Bruxelles, ma l’ex cancelliere gli disse: “Adesso abbiamo bisogno di una crescita economica e non di risparmiare altri 20 miliardi di euro come previsto dal Patto di stabilità. Perché se ci mettiamo a risparmiare, noi socialdemocratici possiamo pure far già le valigie”. E Schröder, dicendo “come stavano le cose e basta”, l’aveva spuntata su Bruxelles. Per questo oggi è dell’avviso che, se i paesi mediterranei danno sufficienti garanzie, anche a loro andrebbe concesso più tempo per le riforme strutturali. Ma bisogna essere decisi, avere il polso della nazione. Schröder è protestante, forse anche per questo il suo concetto di solidarietà non è al cento per cento caritatevole – “fördern & fordern” (sostenere & pretendere) questo il suo motto – in compenso rispecchia il sentire del tedesco medio. E infine bisogna capire quando è arrivato il momento giusto di osare: “Mettendo il bene del paese innanzi a quello del partito”, aggiunge.

Schröder nel libro non parla della decisione di andare al voto di fiducia, quando nell’Spd c’era aria di golpe contro di lui. Preferisce usare l’esempio di Sigmar Gabriel, attuale capo dell’Spd e vicecancelliere. Gabriel di fegato ne ha avuto. Pur conoscendo l’avversione di molti militanti nei confronti di una grande coalizione bis, ha fatto decidere loro se farla governare o no. Se fosse uscito un no, Gabriel avrebbe dovuto cercarsi un altro mestiere. Come ha dovuto fare Schröder dopo aver perso nel 2005 le elezioni anticipate che lui aveva voluto. Certo, è cascato in piedi, pure se non proprio con il massimo della raffinatezza: grazie al suo amico Vladimir Putin, è passato dal Kanzleramt alla guida del consiglio di sorveglianza di North Stream, il consorzio per la costruzione della pipeline che trasporta il gas naturale dalla Russia direttamente in Germania.

FQ. di Andrea Affaticati, 16 febbraio 2014 - ore 10:30

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