Ecco su cosa riflette Draghi prima di iniziare

a battere moneta.

Le lezioni delle Banche centrali anglosassoni, i contraccolpi sulla spesa pubblica, i limiti tecnici del nostro settore privato

La Banca d’Inghilterra, nel suo ultimo bollettino, ha pubblicato uno studio che – considerate le condizioni dell’economia europea e le voci insistenti di interventi straordinari da parte della Banca centrale europea – meriterebbe più attenzione al di fuori della cerchia dei soli specialisti. L’articolo in questione rovescia l’approccio tradizionale e tuttora molto diffuso secondo cui la moneta è creata dalle Banche centrali e trasformata dalle banche commerciali in credito attraverso un processo moltiplicativo. Secondo gli autori, che lavorano alla direzione Analisi monetaria della Bank of England, è esattamente il contrario. Nelle economie moderne la moneta è fondamentalmente “fountain pen money”, è creata cioè dal nulla dai banchieri con un tratto di penna all’atto della concessione del prestito; gli istituti di emissione possono controllarla solo indirettamente, con la manovra del tasso d’interesse in condizioni normali, o con operazioni di Quantitative easing (cioè di allentamento monetario, Qe) in circostanze eccezionali come le attuali nelle quali i tassi sono prossimi a zero. La sequenza che conduce all’aumento della quantità di moneta, in altre parole, non parte dalle Banche centrali per arrivare all’aumento dei depositi bancari e dei prestiti, ma segue un percorso diametralmente opposto.

La tesi in questione non è del tutto nuova e ha illustri sostenitori nel mondo dell’accademia, soprattutto tra gli economisti di scuola postkeynesiana. Ma il fatto che trovi accoglienza nelle rarefatte stanze di una istituzione come la Bank of England è una novità interessante. Se non altro perché rende giustizia di molti luoghi comuni sulla “potenza” dei central bankers e sulla capacità della politica monetaria di risolvere tutti i problemi. Perché è chiaro: se la creazione di moneta dipende dal parametro della offerta e della domanda di credito, in condizioni di scarsità dell’una o dell’altra le iniezioni di liquidità non hanno in definitiva effetti economici reali. E’ questo del resto il caso dei due Ltro (Long term refinancing operation) per oltre mille miliardi lanciati dalla Bce tra il 2011 e il 2012 che non hanno determinato un aumento significativo dei prestiti bancari all’economia reale.

Ci sono anche queste considerazioni, forse, dietro la cautela con cui la Bce, dopo l’apertura mostrata dal presidente Mario Draghi nell’ultimo direttivo e ribadita anche negli incontri del Fondo monetario internazionale (Fmi) a Washington, si sta avvicinando al tema di un Qe all’europea. Con l’euro vicino a 1,40 sul dollaro, l’inflazione sotto di 1,5 punti rispetto al target di riferimento e una ripresa ancora debole l’istituto di Francoforte è sotto pressione: “Mr Draghi deve semplicemente fare qualcosa di più che annunciare una iniziativa e poi tacere”, ha scritto il Financial Times. Mentre il Fmi non perde occasione per chiedere alla Bce di rompere gli indugi e dare avvio a interventi di politica monetaria non convenzionale per contrastare il rischio di deflazione incombente e sostenere una ripresa che – dice lo stesso Draghi – è ancora “modesta”. Dentro l’Eurotower c’è tuttavia molta incertezza sul quando e sul come avviare una operazione di Qe.

Stati Uniti e Regno Unito si sono mossi subito, all’indomani della crisi. La Fed e la Bank of England hanno avviato operazioni di Qe volte all’acquisto di bond privati ma, soprattutto, pubblici che hanno permesso ai rispettivi governi di finanziare in deficit, a tassi d’interesse contenuti, forti aumenti della spesa pubblica e rilanciare per questa via la crescita economica. Oggi negli Stati Uniti e nel Regno Unito il pil aumenta rispettivamente al ritmo del 2,6 e del 2,7 per cento contro il mezzo punto percentuale dell’Eurozona. Il Quantitative easing all’americana in altre parole è servito soprattutto ad “accomodare” aumenti in deficit degli investimenti pubblici (soprattutto in infrastrutture) che hanno sostituito una domanda di investimenti privati latitante. Una opzione, questa, che come noto è tabù nell’area dell’euro a causa dei vincoli al finanziamento dei bilanci statali da parte delle Banche centrali. L’attenzione della Bce si concentra dunque sull’acquisto di bond privati: Abs, ovvero cartolarizzazioni di crediti in essere e altri attivi emessi dalle banche, obbligazioni di imprese private (l’opzione preferita dalla Bundesbank) e azioni. Si guarda con favore anche all’esperienza britannica del “funding for lending”, consistente nell’allentamento di alcune strettoie regolamentari per incoraggiare il credito alle piccole e medie imprese e al consumo, che tuttavia non ha dato esiti univoci. Ma, a parte le difficoltà tecniche che incontra una campagna acquisti di asset privati (il mercato europeo non è sufficientemente sviluppato), il punto vero è sempre lo stesso: nelle attuali condizioni in cui per i motivi strutturali più diversi (demografici, di esaurimento del ciclo delle innovazioni, di competitività) il meccanismo di accumulazione del settore privato perde colpi, non vi sono garanzie che la nuova liquidità immessa nel circuito finanziario prenda la via del credito bancario e dello sviluppo. Se il cavallo non ha sete, si sarebbe detto una volta, è inutile dargli da bere.

FQ. di Marco Cecchini, 21.4.2014

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata