Produttività, questa sconosciuta. Le colpe degli

IMPRENDITORI. M anagement conservatore e Poca innovazione

Perché all’Italia non basterà puntare l’attenzione sui lavoratori

La scarsa competitività, insieme all’alto debito, è l’elemento che rischia di mettere l’Italia sotto procedura europea per squilibri economici eccessivi. Niente di nuovo, ma ora la questione potrebbe farsi più seria. I problemi di competitività sono noti e si identificano sempre in quei “lacci e lacciuoli” di Guido Carli che nel 2014 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, intende “come rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali”. Tutti fattori importanti, ma dovremmo guardare meglio quella scatola nera che gli economisti chiamano “produttività totale dei fattori”, che, oltre al contesto istituzionale, dipende soprattutto dal capitale umano, dall’innovazione e dall’organizzazione delle imprese.

La crescita della produttività è stata un elemento cruciale nel processo di sviluppo del nostro paese fino a metà degli anni 90. Poi la macchina si è praticamente bloccata. Cosa è successo? Le tasse sono ancora molto alte, la burocrazia sempre invadente, ma le rigidità del mercato del lavoro si sono ridotte, seppure al margine, e i sindacati sicuramente sono meno potenti rispetto agli anni 70 e 80. Quindi cosa ci ha frenato negli ultimi vent’anni? Ci ha fregato (anche) l’incapacità delle nostre imprese di tenere il passo degli altri paesi in termini di investimento in tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Perché sia andata così non è ancora completamente chiaro. Gli economisti suggeriscono la scarsa propensione e cultura dell’innovazione ma anche una serie di cattive pratiche nella gestione delle risorse umane. Una gestione delle risorse umane efficace è fondamentale per accompagnare l’innovazione e consentire l’adozione di nuove tecnologie e un loro efficace sfruttamento. E su questo sembra che le imprese italiane abbiano sbagliato su tutta la linea.

Gli economisti Fadi Hassan e Gianmarco Ottaviano, in un loro studio, mostrano come l’Italia sia un campione in tutti quei comportamenti aziendali che danneggiano l’innovazione. Innanzitutto la tendenza a promuovere i lavoratori in base all’anzianità e non all’effettiva performance. In secondo luogo la tendenza a distribuire premi (o a non distribuirli) a pioggia, senza un’adeguata valutazione personale contribuendo notevolmente a ridurre la motivazione e gli incentivi dei lavoratori. Terzo, manager e lavoratori inefficienti sono raramente rimossi dai propri posti. Infine, la costruzione di un team competitivo ed efficace è raramente la priorità di un manager italiano. In queste condizioni, l’ennesima discussione infinita sull’ennesimo decreto lavoro non servirà certo a rilanciare la crescita in presenza di pratiche gestionali che rimangono rigide e non meritocratiche.

Eppure, gli industriali potranno rispondere che, nonostante oltre un decennio di declino, l’Italia è l’unico paese sviluppato insieme alla Germania a non aver perso posizioni nella classifica dei paesi manifatturieri e dal punto di vista qualitativo la produzione italiana rimane al top della gamma in molti settori. Allora se la mettiamo così neanche le tasse e la burocrazia rappresenterebbero un impedimento così grave. In realtà si tratta del risultato di una tendenza alla specializzazione di poche imprese all’export massiccio. Il numero delle aziende globalizzate è ancora troppo limitato e chi legge le (giuste) analisi di Marco Fortis per rafforzare il proprio orgoglio industriale rischia di autocompiacersi e dimenticare la priorità assoluta di ampliare la fascia di questi “campioni” per rimanere competitivi nelle catene del valore globale nei prossimi anni.

Ora sta arrivando un’altra ondata di trasformazione, in particolare per il settore industriale, il passaggio verso la cosiddetta “manifattura intelligente”. Il ruolo del costo dei fattori di produzione è diventato molto meno rilevante, tanto che alcune imprese cominciano a ritornare in Europa dall’Asia. Ciò che conta è l’“intelligenza” che non “è solo incorporata nella fabbrica e nei suoi codici operativi, ma si genera al suo interno”, come ha scritto Giuseppe Berta in “Produzione intelligente” (Einaudi), un interessante viaggio nelle nuove fabbriche. Quante delle nostre imprese sapranno cogliere questo treno? Non certo quelle imprese che pensano di uscire dalla crisi con la possibilità infinita di proroghe nei contratti a termine perché sanno che precarietà non fa rima con investimento in capitale umano.

Rappresentanza (confindustriale) in crisi - Se nel nostro paese manca una politica industriale degna di questo nome, non può essere solo colpa della politica o dei sindacati. Dov’è stata la Confindustria negli ultimi vent’anni? Abbiamo sentito rivendicazioni molto forti su tasse e aiuti a settori in difficoltà. Poi? Berta dedica la seconda parte del suo libro alla crisi della rappresentanza. Non solo i sindacati ma la stessa associazione degli industriali italiani che ha subìto i colpi di un’economia in decelerazione e quelli della destabilizzazione dello scenario politico. Il grillismo colpisce tutti, anche i padroni. Un’alternativa è il “tutti a casa”. Slogan attrattivo per molti ma poco costruttivo. Un sindacato e una Confindustria servono ancora nel XXI secolo. A patto che cambino. L’alternativa che Berta propone è una rappresentanza che si cali nel vivo dei processi produttivi e organizzativi di impresa. Cioè una rappresentanza che non fa (solo) politica, ma appunto aiuta le imprese a superare colli di bottiglia del processo produttivo stesso. Berta ha in mente il Mesap, il polo regionale d’innovazione per la meccatronica e i sistemi avanzati di produzione a Torino. Un polo che raggruppa non solo le grandi imprese tradizionali, ma anche le start-up, le Pmi e gli organismi di ricerca, molto più all’interno dell’universo di interessi e non un’entità separata. Per di più snella e flessibile, senza costose strutture permanenti. Sfida difficile, ma necessaria, anche solo per conservare i propri iscritti. Più facile chiedere risposte concrete al governo, o altrimenti minacciare di fare appello direttamente a Napolitano.

FQ. di Andrea Garnero, 24 aprile 2014 - ore 06:59

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