Euro a tutti i costi? No.

Saggio anti élite del pragmatico Zingales

“La mia posizione è in contrasto con il comune sentire della stragrande maggioranza degli intellettuali italiani, che vede nell’Europa la stella polare del progresso”, scrive Luigi Zingales nel suo libro “Europa o no” in uscita oggi per Rizzoli. Ed è vero. Effettivamente le tesi dell’economista dell’Università di Chicago sulla moneta unica e sull’integrazione europea sono difficilmente collocabili negli schemi che più si utilizzano nel dibattito pubblico italiano. A partire dal fatto che Zingales, pur fustigando molti degli storici limiti del modello sociale e di sviluppo del nostro paese, non arriva mai a sostenere la lungimiranza del “vincolo esterno” europeo come metodo utile per correggere il legno storto che siamo.

L’ortopedico di Bruxelles non funziona per questioni di metodo: l’idea che i passi avanti nel processo d’integrazione si compiano soltanto sull’onda delle crisi (idea cara a Monnet come a Padoa-Schioppa) e su spinta del saggio paternalismo comunitario (idea cara a molti), è “una ideologia, condivisa dalla maggior parte degli euroburocrati” che “ricorda un po’ l’idea leninista di avanguardia rivoluzionaria”. Se la classe operaia non era pronta alla rivoluzione, allora Lenin, invece che dubitare della bontà della sua idea, teorizzava la necessità di un’azione che avrebbe poi spinto alla rivoluzione, operai volenti o nolenti. E soprattutto l’approccio ortopedico e paternalistico – cui sarebbe da preferire “un approccio empirista-lockiano” – è tutt’altro che infallibile. Sbagliò e molto Romano Prodi, dice Zingales, che fece entrare l’Italia nell’euro “senza una forma di rinegoziazione del debito pubblico e pensionistico” che, in una fase di cambio valutario, “sarebbe potuta probabilmente avvenire in modo non traumatico” e alleggerire quei due fardelli.

L’economista, pur fautore di conti pubblici in ordine e di un capitalismo responsabile e “popolare” (in cui, per intenderci, a poter fallire devono essere anche le banche e non soltanto le ultime ruote del carro), non è affascinato dal “rigorismo” della Germania. “Dopo essere stati forzati a una moneta comune, i tedeschi hanno deciso di adottare la strategia in cui loro hanno un vantaggio comparato: quella della deflazione. Nessun altro paese è riuscito a contenere la crescita dei salari come hanno fatto loro. Se i salari crescono meno della produttività, la pressione deflattiva è assicurata. La Germania è molto vicina a questo risultato”. Se a ciò si aggiunge una politica monetaria ossessionata dalla sola inflazione e un cambio sottovalutato per Berlino, il rifiuto tedesco di contribuire all’aggiustamento macroeconomico dell’Eurozona diventa “una manovra brillante, ma fortemente antieuropeista”.

Meglio dunque, per l’Italia, abbandonare la moneta unica? Zingales valorizza il quesito, piuttosto che schivarlo. Osserva che l’uscita dall’euro per il nostro paese comporterebbe il sollievo temporaneo della svalutazione monetaria e del rilancio di alcune aziende esportatrici, “non implicherebbe automaticamente il suo default” perché il debito pubblico e di molte imprese potrebbe essere rinominato in lire, mentre significherebbe il default quasi immediato di società “come Eni, Enel e Telecom” che hanno emesso obbligazioni all’estero e andrebbero quasi certamente in default – dice Zingales, fresco di nomina nel cda di Eni. Ma il “rischio argentino” rimane: quello di un tracollo finanziario attraverso il canale delle banche e soprattutto – sostiene l’autore – di una rinnovata e rinvigorita autarchia politico- culturale del paese. Quest’ultima approfondirebbe i problemi che comunque sono alla radice del nostro insuccesso economico, che non hanno a che fare con Berlino ma piuttosto con la scarsa produttività del nostro sistema produttivo. Scarsa produttività di cui non sono responsabili tanto i lavoratori italiani, quanto piuttosto – secondo i calcoli di Zingales – imprenditori incapaci di innovare, sostenuti da banche che hanno spesso operato con criteri amicali più che di mercato.

Pragmatismo vuole, però, che il governo italiano prepari un “piano B” per uscire dall’euro, come da anni suggerisce per esempio l’economista Paolo Savona: perché o l’Eurozona si autoriforma “nei prossimi 18-24 mesi – conclude l’economista di Chicago – oppure i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l’uscita diventerà il male minore”. Le riforme europee non più rinviabili sarebbero essenzialmente tre: una Banca centrale europea interventista e che soprattutto privi gli stati nazionali della possibilità di intervenire per salvare le banche provate; una forma di mutualizzazione dei debiti pubblici, quantomeno per una quota di debito fino al 60 per cento del pil; un sussidio di disoccupazione comune fra tutti i paesi che funzioni come un “meccanismo di stabilizzazione automatica” per gli choc economici regionali, sul modello di quanto avviene negli Stati Uniti. Vaste programme per i prossimi 18-24 mesi, al punto che il “nì” di Zingales all’euro rischierà presto di trasformarsi in un ponderato “no”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp, 25.4.2014 

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