Riforma del Senato, ecco i 40 che potrebbero

affondare Matteo Renzi per salvare il loro posto

07 luglio 2014, Libero

La riforma del Senato? Un boomerang, per Matteo Renzi. Lo si era capito sin dal principio, quando a marzo il suo Pd si ribellò alla proposta e quando fu anche criticato dai montiani. Sono passate settimane, anzi mesi di mediazioni e litigi, ma lo scenario non pare essere cambiato. Il Palazzo Madama che (forse) sarà, per l'uomo da Rignano sull'Arno, si è trasformato nel proverbiale Vietnam. Parte del Pd resta contrario al testo emendato, mentre anche in Forza Italia si sprecano i maldipancia: in molti, infatti, svicolano dalla linea del leader, Silvio Berlusconi, più disponibile al compromesso col premier. Il dissenso azzurro è incarnato da Augusto Minzolini, che in conferenza stampa e in diverse interviste ha spiegato tutto ciò che lui e chi lo segue non possono digerire della riforma. Il loro primo obiettivo è evitare che il testo piombi in aula al buio: ad oggi, nessuno ha letto ed esaminato a fondo il testo (si pensi al paradigmatico balletto di smentite e controsmentite sull'immunità). Obiettivo, quello del Minzo, condiviso e trasversale: come lui la pensano - giusto per citarne alcuni - l'epurato Corradino Mineo e i Verdi, redivivi con Pecoraro Scanio.

I dissidenti - Complice la tensione, gli occhi degli addetti ai lavori mettono a fuoco il pallottoliere. Riforma del Senato, riforma Costituzionale: dunque serve una maggioranza di due terzi per evitare l'eventuale (e scontatissimo) referendum confermativo senza quorum, che verrebbe chiesto a gran voce da dissidenti democrat e azzurri, da grillini e dalla sinistra radicale. Nel dettaglio per blindare il testo nel Senato attuale servono 214 voti favorevoli su un totale di 320. Numero magico che appare una chimera. Certo, se il patto tenesse - o meglio, esistesse -, come ricorda l'Huffington Post, non ci sarebbero problemi. Pd, Forza Italia, Lega Nord e Ncd arriverebbero a 216 voti. A questi si aggiungano poi gli 8 senatori di Per l'Italia favorevoli alla riforma (2 i contrari), i 7 di Scelta Civica e 6 su 11 di Gal. Sulla carta, dunque, i "sì" sarebbero 237. Un margine di sicurezza? Tutt'altro. Sarebbero infatti una quarantina i dissidenti di Pd, Forza Italia e anche nel Ncd (un paio, secondo le ultime stime). Tra i democratici i no arriverebbero, come ovvio, da Vannino Chiti e Corradino Mineo, che capeggiano la rivolta. A loro si unirebbero poi Mucchetti, Casson, Nerina Dirindi, Erica D'Adda, Maria Grazia Gatti, Sergio Lo Giudice, Claudio Micheloni, Tocci, Ricchiuti, Turano e Francesco Giacobbe.

Qui Forza Italia - Dunque l'esame ai raggi X di Forza Italia rivela che una delle fronde più corpose potrebbe essere proprio quella azzurra. Le tensioni sono altissime: si pensi alla riunione convocata la scorsa settimana e poi subito annullata. Su 59 senatori azzurri a nutrire seri dubbi sarebbero 27. Minzolini, certo. Ma non solo. A remare contro ci sarebbero anche i senatori che col Palazzo Madama made in Renzi-Berlusconi verrebbero tagliati fuori: se la prima lettura della riforma avvenisse entro l'estate, si potrebbe tornare al voto - ipoteticamente - già a marzo 2015. Altro che 2018. E con la complicità del nuovo Senato "sfoltito" sarebbero molti gli azzurri a perdere la poltrona, e dunque contrari ad appoggiare la tribolatissima riforma. Un timore, quello di perdere la poltrona, che accomuna anche molti onorevoli democratici. Era scontato, e puntualmente sta avvenendo: chiedere agli inizi o quasi di una legislatura ai senatori di auto-mutilarsi è un'operazione piuttosto pericolosa.

Scetticismo azzurro - Berlusconi, da par suo, è ben consapevole dei rischi che corre il suo accordo con Renzi, tanto che avrebbe chiesto ai suoi fedelissimi di stilare una lista dei dissidenti che potrebbero votare contro il progetto di riforma di Palazzo Madama. Quello di cui il Cav, però, non era consapevole è lo spessore del dissenso. Sui 59 senatori, quasi la metà potrebbero sgambettarlo. Si parte dai 7 pugliesi vicini al grande rivale, Raffaele Fitto: Bruni, Lettieri, Iurlaro, Liuzzi, Perrone, Tarquinio, Zizza. Quindi un altro pugliese, Francesco Amoruso, seppur lontano dall'orbita fittiana (è vicino a Maurizio Gasparri). Tra gli scettici anche l'altrettanto gasparriano Francesco Aracri. Poi la fronda lombarda, composta da Zuffada e Panioncelli. E ancora i campani di Sibilia e Longo. Infine ci sono i contrarissimi, per la verità già approdati a Gal: Milo e D'anna. La lista si allunga poi con gli incerti: Bonfrisco, Malan, Falanga, Fasano, Scilipoti, Villari, Galiberti e Scoma. Da parte di Sandro Bondi e Manuela Repetti, per ora, arriva solo un silenzio piuttosto assordante.

E ancora... - Un gruppone, quello di Pd e azzurri, in grado di disinnescare la riforma, ossia di farla passare senza la necessaria maggioranza qualificata dei due terzi. Un gruppone al quale si aggiunge anche il nuovo centro destrista Roberto Formigoni, che ha sposato le posizioni di Antonio Azzollini, il presidente della Commissione Bilancio. Il contesto, insomma, per Silvio e Matteo - ma soprattutto per Matteo - è scivolosissimo. Il proverbiale Vietnam, appunto.

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