Fra le macerie di Gaza una ricostruzione da 5 miliardi

La vita riprende fra case e negozi distrutti.

Ma mancano i grandi donatori

01/09/2014 MAURIZIO MOLINARI INVIATO A GAZA La Stampa

Nel centro di Gaza City i vestiti da sposa sono tornati nelle vetrine, i soldati di Hamas in divisa verde hanno ripreso a sorvegliare gli incroci e il traffico di camion di beni alimentari in entrata dal valico di Keren Shalom suggerisce che il cessate il fuoco sta mantenendo la promessa sugli aiuti umanitari. 

Ma a 6 giorni dall’interruzione del conflitto con Israele il nodo più difficile da sciogliere è la ricostruzione.

Per avere idea di cosa si tratta bisogna entrare in ciò che resta del Centro commerciale di Rafah, un grande magazzino che ospitava 50 negozi ed è in macerie. È qui che, ogni giorno all’ora del pranzo, si ritrovano i titolari dei negozi distrutti per discutere dell’incerto futuro. «I funzionari del municipio sono venuti - dice Ahmedan Abu Thara, 70 anni - e ci hanno spiegato che la ricostruzione prenderà cinque anni, ma in questo periodo le nostre 225 famiglie come vivranno?». L’interrogativo solleva brusii e malumori. C’è chi impreca contro «gli israeliani che hanno raso al suolo mezza Rafah» e chi se la prende con Hamas «perché qui nessuno fa la resistenza ma abbiamo pagato il prezzo più alto». 

A tentare di mettere ordine nella vivace discussione è Reduan Attuan, 60 anni, «ci risolleveremo solo con gli aiuti del mondo esterno, siamo pronti a riceverne da tutti, anche da ebrei o americani, ma sappiamo che i più efficienti sono gli europei». Fra i presenti c’è Ahmed Almugheri, 22 anni, che aggiunge: «Mio padre dice che gli europei sono meglio degli arabi quando si tratta di aiuti». Ma la conferenza sugli aiuti internazionali a Gaza, che Egitto e Norvegia co-presiederanno in settembre, è tutta in salita per le difficoltà economiche in cui versa l’Ue. 

«Questa volta non potremo essere noi a garantire gran parte dei finanziamenti» afferma un alto diplomatico europeo a Tel Aviv e la conferma arriva da fonti vicine al team del Segretario di Stato John Kerry impegnato a sondare i donatori: gli Usa daranno un «contributo significativo» ma le attese maggiori riguardano Turchia, Qatar e Arabia Saudita. D’altra parte Ankara è la capitale che nei primi giorni del post-conflitto ha fatto arrivare all’aeroporto Ben Gurion più aiuti umanitari per la Striscia e le controprove sono visibile: dalle piccole bandiere turche sulle moschee di Bayt Lahiya alle scritte in turco su autoambulanze e pacchi di farina.

L’incertezza su chi fornirà gli aiuti si accompagna alle dimensioni di una ricostruzione «senza precedenti anche in una zona abituata a guerre e distruzioni come questa» assicura Nabil Abu Muaileq, presidente della «Palestinian Contractor Union» che riunisce i costruttori della Striscia. Abu Muaileq è nella sede dell’Undp - il Programma di sviluppo dell’Onu - per discutere «da dove iniziare a ricostruire» assieme a inviati del Palazzo di Vetro, di Hamas e di Abu Mazen, e leader locali. «Ci troviamo davanti ad un compito immane - spiega - perché gli edifici distrutti sono 9000, quelli molto danneggiati 8000 e quelli che hanno bisogno solo di riparazioni 43000, sono danni superiori a quelli subiti nei conflitti del 2008 e del 2012» e per ricostruire «servono almeno 5 milioni di tonnellate di materiale» per un valore di circa «5 o 6 miliardi di dollari».

Le stime dell’Ufficio coordinamento umanitario dell’Onu (Ocha) ritengono che potrebbero bastare in realtà 600 milioni di dollari ma la valutazione dei danni agli edifici è molto simile a quella del ministero dell’Edilizia palestinese. Fra Onu a palestinesi c’è disaccordo sull’entità degli aiuti, non sulla vastità della ricostruzione. Durante la riunione nella sede dell’Unpd si discute in libertà sul ruolo di Turchia e Qatar «legati ad Hamas» e dell’Arabia Saudita «che ha promesso ad Abu Mazen 500 milioni di dollari» arrivando ad ipotizzare un «equilibrio politico fra chi darà quanto» ma la maggiore preoccupazione, spiega Abu Muaileq, è «creare un sistema efficace per far arrivare gli aiuti a destinazione».

L’ipotesi è affidare i fondi raccolti al Cairo a tre gestori: Unpd, Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) e Autorità nazionale palestinese. Ma basta evocare il ruolo di Abu Mazen per innescare ironie e malumori. «Durante 51 giorni di guerra non si è mai rivolto alla nostra gente - dice un rappresentante di Khan Younis - ma ora vuole arrivare e gestire tutti i soldi che ci daranno, un presidente si comporta così?». L’altro interrogativo riguarda Israele. «Il mondo ci può anche coprire di dollari ma se Israele non aprirà i varchi alle merci la ricostruzione non decollerà» osserva Abu Muaileq, secondo il quale «mentre Israele vuole accatastare i materiali edili sul suo territorio e poi, progressivamente, farceli arrivare assai meglio sarebbe tenerli tutti nella Striscia, sotto il controllo di Abu Mazen, per poi affidare all’Autorità palestinese le decisioni su cosa usare, quando e come».

Dimensioni dei danni, carenza dei fondi, tensioni inter-palestinesi e il conflitto con Israele suggeriscono un cammino a ostacoli per la ricostruzione. «Se tutto funzionasse alla perfezione, e da subito, ci servirebbero 3 anni di tempo per far tornare Gaza allo scorso 8 luglio - conclude il capo dei contractors palestinesi - ma poiché non sarà così, potrebbero non bastare 30 anni». Ecco perché dentro le rovine del centro commerciale di Rafah Muhammed Abu Taha, 22 anni, commenta: «Mi sono appena sposato, non posso aspettare una vita per riaprire il negozio distrutto, se l’Europa non ci aiuta, affonderemo tutti».

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