La disciplina di partito nell’èra Renzi. Storia di un grande

 paradosso politico

di Francesco Cundari | 08 Novembre 2014 ore 06:30Foglio

Poche espressioni della lingua italiana suonano oggi più antiquate della parola disciplina. Forse soltanto una: partito. Intonare l’elogio della disciplina di partito può apparire dunque doppiamente anacronistico, nell’Italia di Matteo Renzi e del Movimento 5 Stelle: la negazione vivente di qualsiasi idea di disciplina, il primo, che deve il suo successo alla proposta di rottamare i vertici della sua stessa organizzazione, e la negazione vivente di qualsiasi idea di partito, il secondo.

Ovviamente, quando parliamo di disciplina di partito, non stiamo parlando della cieca obbedienza al capo – requisito indispensabile nel Movimento 5 Stelle, facoltativo ma molto apprezzato nel Pd – anzi, si potrebbe dire che sia l’esatto opposto. Dove non c’è disciplina di partito, infatti, può esserci solo fedeltà al capo. E non fa differenza che si tratti del capo del partito oppure del capo di una corrente (e magari, caso tutt’altro che raro, di una corrente composta da una sola persona).

Può darsi che in Italia il fenomeno non sia nemmeno allo stadio più avanzato: nonostante tutto, è ancora abbastanza difficile immaginare uno spot elettorale in cui Gianni Cuperlo imbracci il fucile e faccia centro al tiro al piattello, giurando di non essere quello smidollato di Matteo Renzi, come la candidata democratica del Kentucky (sconfitta) ha fatto con Barack Obama.

 Il problema, però, non è tanto lo spirito del tempo, quanto lo spirito degli italiani. Nella loro lunga storia, la stagione del bipartitismo imperfetto Dc-Pci è stata appena una parentesi, peraltro imposta dal bipolarismo mondiale Usa-Urss: non appena questo è venuto meno, è venuto meno anche quello, e siamo tornati all’abituale mescolanza di autoritarismo e anarchismo. Una tradizione così antica che la sua prima testimonianza si trova forse già nella settima lettera di Platone, dove il filosofo censurava “quello che qui veniva detto modo felice di vita”, convinto che “nessuna città potrebbe vivere in tranquillità sotto qualsivoglia sistema di leggi quando gli abitanti credono che sia una necessità lo sperpero senza limiti”, e giudicando pertanto inevitabile, con profezia che sembra descrivere alla perfezione l’implacabile bramosia di riforme istituzionali degli ultimi vent’anni, che “queste città non smettano mai di cambiare regime, in tirannidi e in oligarchie e in democrazie, e che i detentori del potere in queste città non tollerino di sentir pronunciare nemmeno il nome di una costituzione giusta e basata sull’eguaglianza davanti alla legge”. E chissà cosa direbbe Platone se oggi potesse far colazione in un qualsiasi bar di una qualsiasi città del nostro paese, dove non si trovano più due clienti che ordinino il caffè allo stesso modo, tra caffè freddi macchiati caldi in tazzine fredde e caffè caldi macchiati freddi in tazzine di vetro.

Si tratti dell’affermarsi di una piena cultura dei diritti o della dittatura del principio di piacere, sta di fatto che una simile concezione del mondo è da anni parte essenziale del dibattito politico. La novità è che oggi, da contenuto del dibattito politico, è divenuta norma di comportamento degli stessi politici. E se la crisi di Forza Italia potrebbe spiegarsi anche con il naturale indebolimento di una leadership ventennale, mentre lo spappolamento grillino potrebbe essere attribuito a ragioni strutturali specifiche del loro movimento, il caso del Pd offre la terza e indiscutibile prova di un fenomeno generale, con l’inversione dei ruoli tra renziani e antirenziani a seconda del loro essere maggioranza o minoranza. Di qui uno spettacolo due volte assurdo, con i custodi del partito alla vecchia maniera a un passo dal convocare i girotondi davanti al Nazareno e con i sostenitori del partito liquido a invocare regole e disciplina. Il che poi non è che la conseguenza ultima, e paradossale, di quelle primarie così fortemente volute dai nemici del partito personale nel 2012, perse dai sostenitori del modello americano e leaderistico.

Sta di fatto che ormai nemmeno l’ultimo militante di provincia, figurarsi un parlamentare, sembra avvertire alcun vincolo di lealtà rispetto alle decisioni del proprio partito, quando il difenderle implichi il più piccolo sacrificio narcisistico per la propria immagine, che in gioco ci sia un’intervista al Tg1 o uno status su Facebook, il governo del paese o l’opinione che si potrebbero fare di noi il macellaio e l’edicolante.

Il sospetto, insomma, è che in Italia la cosiddetta personalizzazione della politica navighi a grande velocità verso le sue colonne d’Ercole: una politica a persona. Vale a dire, letteralmente, nessuna politica.

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