Non fate la carità

Disavventure logiche e giudiziarie di una buona e giusta azione

di Redazione | 13 Dicembre 2014 ore 06:05 Foglio

La carità concima l’indigenza e arricchisce i lestofanti, più facilmente se si tratti di beneficare gli ultimi del mondo come i profughi o i migranti. Messa così è un po’ brutale, d’accordo, e forse non tiene conto di alcune eccezioni e di splendidi casi di successo. Ma non è questione di cattiva fede, funziona per lo più così e non soltanto fra le piccole bande di cravattari e delinquentelli municipali. E’ la cosa in sé a contenere il germe del vizio.

Oltre una certa soglia, oltre un perimetro fisiologico entro il quale si muove l’anima compassionevole dell’individuo o della koinè privata, qualunque organizzazione istituzionalizzata con il compito dell’assistenza caritatevole sarà portata a perpetuare se stessa, il proprio mondo ambiente, la propria forza lavoro e i propri tornaconti più o meno legittimi. E con essi la materia prima della propria ragione sociale: i destinatari della carità. Vocate all’aiuto dei bisognosi, le associazioni di volontariato non possono avere come obiettivo l’estinzione del bisogno, altrimenti lavorerebbero contro se stesse e nel bisogno ci precipiterebbero loro. Quando poi su questo truismo s’innesta un volume di finanziamenti pubblici consistente, che è il tratto tipico della cattiva coscienza di uno stato distratto o rinunciatario, se non pure in dismissione o in micro affari illeciti con il lato oscuro del volontariato, il risultato è ovvio: la moltiplicazione su scala ridotta e semi-privata delle inefficienze, dei monopòli, dei privilegi e delle malversazioni parastatali. Ciò detto, la parola carità proviene dal greco chàris, che significa grazia ed è un dono del cielo. Condividerlo è bello, basta sapere a cosa si può andare incontro.

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