L’altro potere del Quirinale. Renzi e la cintura del Nazareno.
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Gli anni di Napolitano e i prossimi. Nomi, metodi e caccia ai grand commis. Indagine sulla burocrazia invisibile della presidenza della Repubblica
di Claudio Cerasa | 24 Dicembre 2014 ore 06:30 Foglio
Quel che si muove e si muoverà sotto la superficie del Quirinale costituisce una partita cruciale per capire come gli azionisti del governo Renzi proveranno ad avvolgere il prossimo capo dello stato
Nell’èra della disintermediazione, dell’eliminazione dei corpi intermedi, della fine degli apparati, dell’insostenibilità delle burocrazie, dell’intollerabilità dei filtri politici, nell’èra del modello Uber, del partito WhatsApp, del segretario Airbnb, dei ministri Spotify, succede che, sui radar del governo Leopolda, è comparso all’orizzonte un universo particolare in cui la burocrazia improvvisamente diventa strategica, gli apparati diventano fondamentali, i corpi intermedi diventano vitali. E in cui, per la prima volta, l’obiettivo del presidente del Consiglio non è quello di disboscare e di tagliare ma più semplicemente, prima di ogni altra cosa, conquistare, conquistare, conquistare. L’universo a cui facciamo riferimento è quello del Quirinale. E la partita che andremo a descrivere non è quella che riguarda la casella del successore di Giorgio Napolitano (vi prego, non ne possiamo più) ma è quella che riguarda le caselle occupate da tutti gli uomini del presidente che, in questi anni, hanno svolto a vario titolo un ruolo fondamentale all’interno della potente macchina della presidenza della Repubblica – e che, complice il ruolo straordinario assunto dal Quirinale nella gestione di una serie di passaggi storici difficilmente ripetibili, hanno avuto un peso importante in alcune fasi cruciali della vita della Repubblica. L’elenco è composto da alcune posizioni apicali. Consiglieri giuridici. Consiglieri legislativi. Consiglieri diplomatici. Consiglieri politici. Consiglieri per gli affari interni. Consiglieri semplici. E, soprattutto, la segreteria generale. Le caratteristiche di Giorgio Napolitano lo hanno portato a essere per molto tempo un presidente anomalo che ha avuto la possibilità di triangolare con il suo staff da una posizione di forza e non di subalternità, come accaduto invece ad alcuni predecessori. Nei nove anni di regno napolitaniano (o almeno, nei primi sei anni) non sono emerse figure decisive e incisive come sono stati Antonio Maccanico ai tempi della presidenza di Carlo Azeglio Ciampi e di quella di Sandro Pertini e Gaetano Gifuni ai tempi della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro (entrambi segretari generali della presidenza della Repubblica, entrambi con un peso specifico suoi presidenti superiore a quello che era il loro ruolo formale). E non sono emerse perché Napolitano, fino a che le forze glielo hanno concesso, ha scelto di muoversi autonomamente e, anche lui, senza troppi corpi intermedi per giocare su più piani: piano politico, piano governativo, piano parlamentare, piano amministrativo, piano giuridico, piano militare, piano europeo. Nonostante questo, specie negli ultimi tre anni, attorno al presidente della Repubblica è emerso un gruppo ristretto di consiglieri che ha accompagnato e seguito da vicino Napolitano nei momenti più delicati. E quei consiglieri sono gli stessi invitati nella propria stanza dal capo dello stato al momento del ritocco degli ultimi discorsi (l’ultima volta è successo prima del discorso alle alte cariche dello stato, il 16 dicembre): Donato Marra, segretario generale; Carlo Guelfi, segreteria del presidente; Maurizio Caprara, consigliere per la comunicazione; Giancarlo Montedoro, consigliere per gli affari giuridici; Ernesto Lupo, consigliere per gli affari dell’amministrazione della giustizia; Marco Piantini, consigliere con delega agli affari esteri; Giovanni Matteoli, portavoce del presidente.
Accanto a questo gruppo di consiglieri ufficiali ve ne sono due non ufficiali ma altrettanto importanti che hanno portato in varie occasioni il loro contributo alla causa del presidente (due vecchi amici: Emanuele Macaluso, novant’anni, Gianni Cervetti, ottantuno anni) e ve ne è uno che forse più degli altri negli ultimi tre anni è diventato prezioso nella quotidianità di Napolitano (il figlio Giulio, 44 anni, docente di diritto amministrativo, che spesso ha seguito con discrezione il papà in alcune occasioni ufficiali, e che ha cominciato ad acquisire centralità specie negli ultimi anni, in cui il dinamismo del presidente è stato comprensibilmente condizionato dagli acciacchi dall’età). Con la fine del mandato di Giorgio Napolitano tutti i consiglieri, come da prassi, dovranno essere sostituiti, e in questa partita delicata, vedremo perché, l’entourage del governo Renzi ha cominciato a muovere i primi passi, alla luce di un ragionamento elementare che suona più o meno così. Preso atto che gli attuali equilibri dei gruppi parlamentari non permetteranno di avere al Quirinale l’ex capo dei vigili urbani di Firenze, preso atto che al Quirinale difficilmente andrà un politico con l’esperienza di Giorgio Napolitano, non fosse altro perché l’unica caratteristica confidata in privato da Matteo Renzi rispetto al successore di Re George è che “non deve essere un candidato del secolo scorso” e “deve essere un candidato che abbia intorno ai sessant’anni”, preso atto di tutto questo, è evidente che il profilo del prossimo capo dello stato, nelle intenzioni del presidente del Consiglio, dovrà essere il più possibile circondato da una burocrazia fatta a immagine e somiglianza se non della Leopolda sicuramente del patto del Nazareno. La politicizzazione della burocrazia quirinalizia, secondo alcuni osservatori, dovrebbe seguire un tratto simile, e dunque molto politico, a quello utilizzato da Renzi e Berlusconi per scegliere il successore di Michele Vietti alla vicepresidenza del Csm (e da questo punto di vista, il profilo di Giovanni Legnini, ex Ds stimato tanto da Renzi quanto da Berlusconi ma non così vicino a Renzi da essere considerato renziano, è certamente utile da studiare). Ma all’interno di questa cornice la vera questione di fondo con cui si ritrova a fare i conti il presidente del Consiglio è che, nell’èra della disintermediazione, come si diceva, e della rottamazione dei corpi intermedi, risulta complicato ragionare su quali potrebbero essere i Grand Commis de l’Etat che potrebbero portare il Dna della Leopolda nell’apparato quirinalizio. E la paura inconfessabile di Renzi è che, nei rapporti con le burocrazie del Quirinale, ci possa essere lo stesso rapporto complicato che vi è oggi con le burocrazie del ministero dell’Economia. Dunque, come uscirne?
Sul tavolo del presidente del Consiglio ci sono alcuni nomi che circolano da tempo, candidati da molti (e in alcuni casi anche autocandidati) a occupare la casella più importante del Quirinale, che è quella della segreteria generale della presidenza della Repubblica, occupata oggi da Donato Marra – con cui Renzi ha un buon rapporto ma con cui i tecnici del governo non sono mai riusciti a costruire una profonda armonia (Marra, consigliere di stato, ha chiesto e ottenuto, dopo una lunga battaglia, che il governo Renzi non rendesse incompatibile il ruolo di magistrato con quello di funzionario di stato, com’era previsto invece in una prima versione della riforma della Pa, il segretario generale di Napolitano non è la tazza di tè di alcuni tra i collaboratori più stretti del presidente del Consiglio). I nomi che da più fronti sono arrivati informalmente all’attenzione di Renzi sono quattro. Il primo è quello del super esperto Ugo Zampetti, storico segretario generale della Camera, vecchio amico di Dario Franceschini e Pier Ferdinando Casini, costretto alla pensione a Montecitorio ma non incompatibile, per età, con un ruolo nella prossima struttura del Quirinale. Accanto a lui, qualora il presidente della Repubblica dovesse avere un profilo più renziano del previsto, chi ha chiesto di essere tenuto in considerazione per il dopo Marra è Antonio Catricalà, consigliere di stato, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Monti, ex viceministro delle Comunicazioni con Enrico Letta, nonché vecchio amico di Gianni Letta (il cui nome, non sappiamo con quanto fondamento e con quali speranze reali, qualcuno ha messo in giro sempre per il ruolo di segretario generale della prossima presidenza). Il terzo nome suggerito a Renzi è quello di un altro consigliere di stato come Alessandro Pajno, presidente della V sezione del Consiglio di stato, ex sottosegretario all’interno con Romano Prodi (XV legislatura), segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri con il primo governo Prodi, già capo di gabinetto dei ministri Mattarella (Pubblica istruzione), Jervolino (Pubblica istruzione) e Ciampi (Tesoro, Bilancio e Programmazione economica). Infine, solo per la cronaca, ha fatto arrivare formalmente a Palazzo Chigi la propria candidatura anche l’ex braccio destro di Mario Monti, Federico Toniato, 39 anni, nel 2011 diventato il più giovane vicesegretario generale della presidenza del Consiglio, con Monti, e da pochi giorni, è successo il 14 novembre, nominato il più giovane vicesegretario generale del Senato nella storia del Parlamento.
Non si tratta naturalmente né di una rosa né di un toto nomi perché ovviamente sarà il prossimo presidente della Repubblica a scegliere i suoi collaboratori (tutti i consiglieri del presidente hanno un mandato collegato a quello del capo dello stato). Ma in questi giorni in cui il Quirinale è in cima ai pensieri di Palazzo Chigi è risultato chiaro che il mondo renziano ha un deficit di burocrati da spendere per ruoli importanti. E non potendo utilizzare, per il Quirinale, il metodo Vigili urbani (il capo del Dagl di Palazzo Chigi, come si sa, è l’ex capo dei Vigili urbani di Firenze) o il metodo autobus (il nuovo responsabile dei fondi per l’edilizia scolastica del governo, Filippo Bonaccorsi, come raccontato ieri dal Corriere Fiorentino, è l’ex privatizzatore dell’Ataf, l’azienda dei trasporti pubblici ovviamente di Firenze), e non potendo neppure, verosimilmente, chiedere al prossimo capo dello stato di assumere come suo braccio destro uno come Franco Bellacci, segretario particolare del premier, dopo esserlo stato anche, ovviamente, a Firenze; non potendo fare tutto questo, e non potendo portare al Quirinale per questioni di età nemmeno Luca Lotti, i renziani hanno capito che l’unica riserva naturale dove coltivare possibili grand commis del renzismo si trova all’interno di un ministero da cui, dicono a Palazzo Chigi, usciranno i volti che il presidente del Consiglio proverà a proporre (e a imporre) nella prossima struttura quirinalizia.
Il ministero è quello delle Riforme e i due giovani maturati in questi mesi al fianco del ministro Maria Elena Boschi (e che hanno svolto un ruolo chiave nelle triangolazioni con le commissioni più importanti di questa legislatura, che sono ovviamente quelle per gli Affari Costituzionali) sono il suo capo di gabinetto, Roberto Cerreto, classe 1976, ex consigliere parlamentare della Camera dei Deputati, ex consigliere a Palazzo Chigi di Enrico Letta, e Paolo Aquilanti, classe 1960, capo dipartimento del ministero della Boschi, lunga esperienza in varie commissioni parlamentari (Affari costituzionali, Industria). Si tratta, a volerla leggere con una buona lente di ingrandimento, di un genere di burocrati statali che ha trovato una sua fertilità nel governo Renzi. Con il nuovo presidente del Consiglio, infatti, a differenza degli esecutivi guidati da Enrico Letta e Mario Monti, si è scelto di allontanare e non confermare quelle figure d’apparato legate a istituzioni lontane dalla politica – come per esempio può essere il mondo della magistratura. I consiglieri di stato, come si sa, sono stati ridotti all’osso e nei dicasteri più vicini per impostazione culturale a Palazzo Chigi i ministri hanno scelto collaboratori capaci di rispondere a un nuovo requisito: percorso interno all’universo della politica, età non troppo elevata, attitudine a porsi di fronte alla politica con la capacità di risolvere i problemi e non di farne emergere dei nuovi.
“Negli anni di Napolitano – racconta al Foglio Carlo Fusaro, professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare a Firenze, autore di un gustoso saggio sui poteri del Quirinale uscito nel 2003 con il Mulino, “Il presidente della Repubblica” – abbiamo assistito a un fenomeno particolare. Da una parte abbiamo avuto un capo dello stato molto politico che ha scelto di avere attorno a sé un gruppo quasi anonimo di persone. Dall’altro lato, lo straordinario potere esercitato da Napolitano ha fatto sì che il peso dei suoi consiglieri fosse direttamente proporzionale al peso assunto dal capo dello stato. E così, anche il consigliere più anonimo si è ritrovato in mano con un potere mica da poco. Con il prossimo presidente della Repubblica cambierà molto. Un profilo come Napolitano è impensabile da trovare in giro. E per questo attorno al prossimo capo dello stato emergeranno delle figure che saranno complementari e che avranno con il nuovo presidente della Repubblica un’influenza maggiore rispetto a quella di oggi, e per questo, credo, verranno scelti con criteri diversi da quelli adottati dall’attuale capo dello stato. Da qualche parte ci sarà un deficit di competenze. O dal punto di vista economico o dal punto di vista parlamentare. E in questo senso i consiglieri saranno destinati a pesare di più. Il tutto sapendo che la forza del Quirinale dipende da un fattore preciso. Se la forma di governo funziona bene, il presidente è solo garante. Se il governo funziona male, allora nascono problemi, e il presidente, con i suoi consiglieri, diventa qualcosa di più di un semplice contro firmatario delle riforme del governo. Dà un suo indirizzo. Per certi versi, come si è visto, governa lui”.
Quel che si muove e si muoverà sotto la superficie del Quirinale costituisce dunque una partita cruciale per capire come gli azionisti del governo Renzi proveranno ad avvolgere il prossimo presidente della Repubblica all’interno di quella che potremmo definire la cintura del Nazareno. Immaginare quale possa essere le geografia della burocrazia del Colle senza sapere chi sarà il prossimo inquilino è ovviamente complicato. Ma nel gioco dei pesi e dei contrappesi con cui verrà costruito il prossimo candidato alla presidenza della Repubblica la struttura del Quirinale potrebbe avere, questa volta, un ruolo diverso e più importante rispetto a quella avuta finora. Una camera di compensazione. O forse, in prospettiva, anche qualcosa di più. E chissà che non sia proprio lì che un domani possa vivere, per i prossimi sette anni, il vero spirito del Nazareno.