Lampedusa, Boots on the Sea

Il problema è in Libia, risolviamolo oppure stiamocene zitti tutti

di Redazione | 11 Febbraio 2015 ore 19:49 Foglio

Quanti editoriali fotocopia occorreranno per lavare l’ipocrisia della vergogna (che pena, signor Gino Strada) e lenire il dolore per i morti, gli altri morti, i forse più di trecento migranti morti a Lampedusa? Di fronte a tutto questo, davanti al ripetersi ormai ritmico di questa folle concimazione del Mediterraneo a forza di gommoni inabissati, non c’è assuefazione a sufficienza per proclamarsi immuni dall’ira.

A questo punto, vano e sciocco è almanaccarsi addosso, colpevolizzarsi e colpevolizzare un’astratta causa efficiente (Mare nostrum, Frontex, Triton, l’Unione europea, i trafficanti di carne umana africani, l’Isis, la Bossi-Fini, l’abolizione della Bossi-Fini, la natura matrigna e via così). Eppure, paradosso infame, queste sembrano essere le sole pratiche consentite a noi spettatori passivi concentrati nella riproduzione seriale e scrittoria del nostro sgomento. Che altro, adesso? Non abbiamo, qui in Italia, gli strumenti culturali, forse, oltreché tecnici, per fronteggiare un’emergenza così lancinante.

Ci avvoltoliamo nel senso di colpa, che in fondo è anche il rifugio della viltà. Ci manca il coraggio di dire sì oppure no all’accoglienza indiscriminata. Ma sopra tutto ci manca la certezza che una negazione assoluta o un’affermazione sovrana siano davvero bastevoli a sradicare il pugnale dal cuore della cosa. L’ultima istanza è la militarizzazione europea dei confini invisibili tracciati sul mare. Boots on the sea, prima di sbarcare in Libia (Renzi l’ha capito, finalmente, il problema è la Libia). Oppure un freddo infernale silenzio.

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