Doping, droga anti-paura

Il ciclista Simoni sul caso Schwazer. Doping, sport, dubbi, polemiche: il caso

di Alex Schwazer, 28 anni, il campione della 50 chilometri di marcia che ha confessato di essersi dopato, ha rilanciato la discussione su quanto di genuino resti nello sport professionistico, specie quello iper-sponsorizzato dai grandi marchi che pretendono trionfi a ogni costo.

INCHIODATO DAL TEST. Nel 2002, durante il Giro d’Italia (che ha vinto due volte, nel 2001 e nel 2003) il ciclista Gilberto Simoni, 41 anni, nato a Giovo in Val di Cembra, compaesano e cugino di Francesco Moser, fu trovato positivo a un test della cocaina. La sua squadra e i giudici lo invitarono a ritirarsi. Lui attribuì la responsabilità ai farmaci assunti per curare il male ai denti e a caramelle balsamiche acquistate in Perù da una zia che poi gliele aveva regalate.

IL RISCATTO AL GIRO. Vero? Falso? La sospensione dal Giro fu confermata, ma - alcuni mesi dopo - l’analisi del capello e il test sulle caramelle sancirono che Simoni non aveva sniffato cocaina. Scalatore puro, tornò alle corse e l’anno dopo rivinse il Giro.

 Estroverso, generoso, nel 1996 Simoni chiese alla squadra di ridurgli lo stipendio perché, dovendo operarsi alle tonsille, non avrebbe potuto allenarsi. Sulla sua esperienza umana e sportiva ha scritto un libro, che ha per titolo Una vita in Giro.

 DOMANDA. Che cosa pensa di Alex Schwazer?

RISPOSTA. L’indignazione per chi si dopa va a periodi, ora è fin troppo intensa perché i mass media ne parlano molto. Si tratta di un dramma personale, non è certo una tragedia per la Nazione.

D. Che fa, minimizza?

R. Niente affatto. Il doping non è mai l’alternativa alla sconfitta. Mi rammarico, però, che un evento splendido come la maratona susciti interesse diffuso solo se accadono storie di doping.

D. Perché un campione decide di doparsi?

R. Non è per la voglia di vincere, ma per la paura di perdere.

D. Che vuol dire?

R. Che il ricorso ai farmaci è molto condizionato dall’ambiente esterno che pretende vittorie a tutti i costi.

D. Eppure, i divieti esistono.

R. Non servono.

D. Perché?

R. Bisogna far comprendere agli atleti che lo sport è sport se si vince grazie alle proprie forze. Altrimenti, è solo competizione e per giunta sleale.

D. Non è facile, a volte, resistere alle pressioni.

R. Non è mai facile: se a 18 anni punti il futuro sulla bicicletta, non correrai più per divertirti ma per vincere sempre e comunque.

D. Lei in bicicletta si è divertito o no?

R. In 25 anni, ho partecipato a 2 mila corse. In carriera, ho tentato di mantenere il mio animo il più possibile leggero, fresco, curioso delle strade e della gente che man mano conoscevo: ma non è un’impresa semplice.

D. Chi è un atleta che si droga?

R. Uno che è rimasto da solo. E che pecca di presunzione.

D. Chi dovrebbe aiutarlo a non doparsi?

R. La sua federazione, innanzitutto.

D. Quanto le federazioni sportive sbagliano con gli atleti?

R. Non cerco polemiche, ma sarebbe già molto se si evitasse l’istigazione, magari implicita, a cercare scorciatoie.

D. Accade questo nel ciclismo?

R. In passato, nel mondo della bicicletta è successo di tutto. Ma poi molto è stato fatto per combattere il doping.

D. Vuol forse far credere che i ciclisti non si dopano più?

R. Dico che oggi per chi si droga non c’è la squalifica di qualche anno ma castighi assai severi. Chi sbaglia paga e spesso chiude la carriera, senza perdono.

D. Lo scorso febbraio il campione spagnolo Alberto Contador, trovato dopato, è stato sospeso per due anni.

R. Contador ha fatto come l’elefante che inciampa su un granellino di sabbia e stramazza a terra.

D. E negli altri sport, come va con la lotta al doping?

R. A rilento. Ci sono ritardi spaventosi. Nel calcio e in altre discipline olimpiche la volontà di risolvere il problema doping appare frenata dalle esigenze degli sponsor che non gradiscono attenzione e pubblicità al riguardo.

D. C’è più superficialità o più complicità?

R. Le federazioni potrebbero intervenire di più ed educare meglio gli atleti.

D. Anche lei, anni fa, fu sospeso dall’attività per una brutta vicenda di caramelle alla cocaina.

R. Quella fu una storia irreale, che non riguardava le mie prestazioni. È stato accertato che non ho mai sniffato cocaina.

D. Però fu sospeso.

R. E poi riabilitato.

D. Se dovesse convincere un giovane a non doparsi, che cosa gli direbbe?

R. È sempre facile fare i buonisti. Gli direi semplicemente di non farlo, ma il vero problema l’ho già accennato.

D. E quale è?

R. È compito delle federazioni convincere e aiutare gli atleti a restare puliti, anche a costo di non vincere qualche gara.

D. Si torna quindi alla paura di perdere, cioè all’obbligo di vincere...

R. È qui la chiave di lettura. Gli atleti più fortunati, nel vuoto di assistenza che c’è, sono quelli che hanno una famiglia compatta su cui contare: sia perché fare sport costa molti soldi e c’è sempre bisogno di un sostegno, sia perché una famiglia può mettere in guardia e tutelare dalla maledetta paura di perdere.

D. In che modo?

R. Non guardando mai l’atleta come un campione che deve vincere.

D. Voler vincere è sbagliato?

R. No, è sbagliato volerlo a qualsiasi prezzo.

Enzo Ciacccio per lettera 43

Mercoledì, 08 Agosto 2012

 

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