Peggiocrazia, mal d'Italia

L’economista Zingales spiega il suo Manifesto per il capitalismo. Perché, come

scrive Zingales, professore di Impresa e finanza alla Graduate School of Business dell’università di Chicago, l’unica soluzione per uscire da questa crisi è quella «di rifondare il capitalismo», rendendolo più giusto, più umano e più efficiente.

DOMANDA. Serve prima di tutto un capitalismo etico?

RISPOSTA. Preferisco parlare di norme sociali e non di etica. In Italia e negli Stati Uniti i problemi non sono solo etici ma di illegalità, e nel nostro Paese sono ancora più forti. E su questo c'è un discorso più ampio che coinvolge anche Mario Monti.

D. Quale?

R. Il problema è: che tipo di norme sociali dobbiamo darci? Perché un mercato funzioni sono infatti necessarie norme legali ma anche di comportamento.

D. Perché quelle legali non sono sufficienti?

R. Le guardo con sospetto perché sono fatte da un parlamento che spesso agisce secondo i propri interessi.

D. In teoria il parlamento, cioè la politica, dovrebbe fare gli interessi dei cittadini.

R. Ci sono atteggiamenti troppo opportunistici che danneggiano anche il mercato, e noi economisti che insegniamo nelle Business school dovremmo guardare al mercato nel suo complesso più che al profitto dell'impresa.

D. Rieducare a un capitalismo etico, insomma. Invece lei nel suo libro sostiene che ora il capitalismo è clientelare.

R. Negli Usa per esempio esiste una poderosa attività di lobbying con la quale privati e aziende si arricchiscono distorcendo le regole del libero mercato. Io, come molti colleghi, sono contrario.

D. Ma negli Usa tutto si svolge alla luce del sole e nella legalità.

R. Scusi il gioco di parole ma è una legalità illegale. Perché alla fine è difficile distinguere la differenza tra la sacrosanta difesa dell'impresa contro l'ingerenza dello Stato rispetto all'attività di lobbying che distorce la libera concorrenza..

D. Quindi la regola suprema per vincere il capitalismo clientelare è l'etica?

R. Dico solo che le norme sociali funzionano meglio, anche se non hanno forza punitiva. Se le trasgredisci non vai in galera, però la sanzione morale agli occhi della società è forte.

D. Per questo dice che la questione morale è diventata non solo politica ma economica?

R. Il lobbysmo è come la pornografia, non la sai spiegare ma quando la vedi la riconosci subito, è lampante.

D. Come la casta. I tagli dei costi della politica che lei auspicava erano necessari proprio per dare un segnale importante di condivisione dei sacrifici. Ma nemmeno il governo tecnico li ha fatti.

R. Non so perché il governo tecnico non è riuscito a fare i tagli, se per mancanza di volontà, di sensibilità o perché c'è stato un veto specifico. Ma questo è stato un grande errore che oggi il governo Monti paga in termini di consenso.

D. Lei nel suo libro parla del senso di rimozione sociale. Serve forse un mea culpa, un «abbiamo fallito»?

R. Riconoscere gli errori è una cosa positiva. L'Italia avrebbe tanto bisogno di voltare pagina, ma è difficile, per questo i politici dovevano essere i primi a dare l'esempio e quindi attuare quei tagli.

D. Lei parla di «Peggiocrazia», Monti invece di «Creditocrazia». Chi ha ragione?

R. Che in questo momento ci siano grosse difficoltà nel settore del credito che si ripercuotono sul mercato è chiaro. Mesi fa scrissi un articolo sul rischio del credit crunch, ma non è solo questo il problema.

D. E qual è allora?

R. Se l’Italia non cresce e rischia il default è perché sinora è stata governata dai peggiori. E sono i nostri meccanismi di selezione della classe dirigente a sceglierli.

D. Quindi non c'è speranza?

R. No, le cose possono cambiare. Mario Draghi per esempio è l'eccezione. Il ruolo che riveste dimostra che c'è la possibilità di far emergere le persone competenti. Dobbiamo renderci conto che è il clientelismo il motivo per cui l’Italia è in crisi.

D. Il ministro Elsa Fornero ha ribadito quanto sia stato importante modificare l'articolo 18 per sbloccare il Paese. Mentre lei sostiene che il vero problema è l'amoralità economica diffusa.

R. Io capisco l'esigenza di rendere il mercato del lavoro più flessibile, ma preferisco sempre guardare i dati empirici. E i dati non dicono che la differenza la fa se puoi licenziare in un'azienda con 15 o 16 o 18 dipendenti, non è quello il discrimine. O almeno non è un fattore così importante. Il problema vero sul quale dovremmo interrogarci è perché abbiamo aziende di 15 dipendenti e non di 250.

D. E perché?

R. Tutto è dovuto alla mentalità italiana secondo la quale è difficile delegare il lavoro ad altri e quando lo si fa la fedeltà vince sulla competenza. Manca una cultura del merito perché non c’è una cultura della legalità, ma una diffusa mancanza di fiducia.

D. E a cosa è dovuta questa sfiducia atavica?

R. È il frutto di un retaggio storico che risale al Dopoguerra, quando c'era il comunismo e gli imprenditori erano una sorta di carbonari che si dovevano nascondere per fare affari. Ma questo atteggiamento di diffidenza, di sfiducia verso il prossimo era giustificato nel ‘45. Oggi è solo un ostacolo al fare impresa.

D. Il passato che ritorna. Matteo Renzi durante il lancio della sua campagna elettorale ha detto che bisogna «rottamare la subalternità culturale alla generazione del ‘68 che si dipinge come l'unica meglio gioventù, l'unica che ha ideali».

R. Il ‘68 ha portato delle conseguenze molto negative in Italia. Perché proprio nel momento in cui c'era la possibilità di far emergere le persone in base alle capacità, si è invece riusciti a distruggere la meritocrazia per favorire l'uguaglianza. In realtà quella che il '68 ha legittimato è la diseguaglianza.

D. Deluso dai sessantottini e anche da questo governo di economisti e professori?

R. Il governo tecnico ha fatto molto nell'emergenza, ma non ha il tempo né il mandato per realizzare tutto quello che si dovrebbe fare.

D. Il prossimo aprile però si ritornerà alle urne.

R. Sì ma andrebbe fatta prima una bella pulizia all'interno degli enti statali, delle municipalizzate. Insomma bisognerebbe disinfettare l'entroterra politico.

D. Sì ma la politica clientelare italiana riuscirà a farlo?

R. Ci vorrebbero nuove leve. E quello che propone Renzi è interessante. Non è giovanilismo, non è una questione di essere più o meno bravi, ma di dare la possibilità anche ad altre persone di fare qualcosa per il Paese.

D. Per questo anche lei ha dato la sua disponibilità a scendere in campo?

R. Ho aderito al movimento Fermiamo il declino non tanto perché voglia candidarmi, ma per dare un contributo a cambiare il modo di fare politica in Italia. Un po' come accade nelle imprese. Non è possibile cambiarle dall'interno ma occorre creare altre aziende, altri modelli che poi condizionino e spingano le prime a migliorare.

D. Dare l'esempio?

R. Esattamente. Per questo ho aderito al movimento, per provare a proporre una alternativa.

D. Insomma alla fine si candiderà?

R. In Italia in questo momento c'è una corsa disperata a trovare un posto. Io non cerco una poltrona, anche perché all'università di Chicago sto benissimo.

D. Qualcuno potrebbe accusarla allora di parlare senza “sporcarsi le mani”.

R. No, voglio dare davvero il mio contributo, è una questione di responsabilità civile, non voglio solo parlare ma anche fare.

D. Insomma se sarà necessario scenderà anche lei nell'agone politico.

R. Sì, nei modi in cui potrò farlo lo farò.

15.9.2012

Twitter @antodem

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