Amstrong e l’Unione ciclistica Internazionale

Come previsto la sentenza dell’Uci ha immediatamente scatenato

dubbi e polemiche. Sembra incredibile infatti che Armstrong, sottoposto negli anni a quasi 500 test antidoping, non sia mai risultato positivo. Filippo Simeoni, il primo grande accusatore del texano, osò scoperchiare il pentolone e fu subito tacciato come bugiardo e calunniatore. Addirittura re Lance si permise di vanificarne una fuga al Tour de France 2004, costringendolo a rientrare in gruppo senza che nessuno dicesse nulla. Eppure Simeoni aveva ragione. Dunque come può l’Uci non sentirsi colpevole per la maxi truffa di Armstrong? «Abbiamo delle responsabilità - ha ammesso ieri Pat McQuaid, presidente dal 2005 - ma all’epoca dei fatti non avevamo strumenti sofisticati come oggi. Con il passaporto biologico certe cose adesso non potrebbero più succedere». Un po’ tenue come giustificazione. Basta chiedere qualche parere agli addetti ai lavori. In fondo faceva comodo anche all’Uci che Armstrong il sopravvissuto dal cancro, il simbolo del ciclismo americano che portava soldi e sponsor e produttori di biciclette e sempre nuove corse negli States, diventasse il testimonial del ciclismo del Duemila. Tanto che l’Uci, dodici anni fa, accettò addirittura un suo “contributo” in denaro, 125 mila euro, ufficialmente per combattere il doping nel ciclismo. 

 Domanda dissacrante: quei soldi come sono stati investiti? Assai male, viene da credere, e comunque non per debellare il doping, visto il triste andazzo di quegli anni. Davvero l’Uci non venne nemmeno sfiorata dal dubbio che incassare quel contributo “sui generis” fosse inopportuno? Accettare dei soldi dal n. 1 del pedale non significava diventarne implicitamente e inconsciamente ostaggi? E comunque perché quella “donazione” è stata tenuta segreta per un decennio, fino a quando non è stata scoperta per caso nel 2010 e denunciata? La realtà è che in tutti questi anni l’Uci ha dimostrato soprattutto fiuto per il business e pochissimo rispetto invece per la storia del ciclismo, la sua straordinaria tradizione europea, i valori dello sport. I più esperti nel mondo del ciclismo - ne abbiamo avuto spesso la prova, in anni al seguito delle corse - sanno distinguere una grande prestazione sportiva da una vittoria ottenuta con l’inganno. L’Uci no. C’è voluta infatti l’Usada, ente antidoping americano, per smascherare «la più grande truffa mai realizzata nella storia dello sport». E in Italia è stato merito soprattutto del Coni e della Federciclismo se sono venuti fuori casi clamorosi di doping e se è stato fermato e poi squalificato anche un corridore straniero, lo spagnolo Alejandro Valverde, che invece per l’Uci meritava l’assoluzione.

 Pat McQuaid ieri ha di fatto assolto il suo predecessore Hein Verbruggen («Nel fascicolo dell’Usada non ci sono riferimenti al suo operato», ha detto) e garantito che, grazie al passaporto biologico e alla collaborazione sempre più diffusa con le forze di polizia e la giustizia ordinaria della varie nazioni, il futuro del ciclismo non è in pericolo. Nasce però legittimo il sospetto che, dopo questa grottesca vicenda Armstrong, il vero nuovo business dell’Uci sia paradossalmente il sistema antidoping, che ha potuto svilupparsi oltre ogni previsione grazie a un fenomeno dilagante negli anni e non sempre contrastato a dovere. Per combattere chi bara le squadre di ciclismo versano ogni stagione migliaia di euro alla federazione mondiale. E, in realtà sociali che per la crisi economica continuano a tagliare fondi alla Sanità, questo crescente flusso di denaro suona quasi come una contraddizione. Soprattutto alla luce dei risultati, ancora insoddisfacenti. «Anche oggi se un campione come Boonen, Cancellara o Gilbert volesse contribuire alla lotta antidoping accetteremmo una sua donazione, magari con modalità diverse. Non siamo la Fifa, non abbiamo i mezzi del calcio, l’aiuto degli atleti non è una cosa deprecabile». Ma sconveniente sì. A meno che i soldi non vengano prima di qualsiasi altra cosa.

La Stampa, Giorgio Viberti – 23,10

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