Libidine & spregiudicatezza

Nel mondo del desiderio sessuale gay istituzionalizzato, i giudizi moralistici sull’eleganza delle passioni di un uomo diventano sentenza di condanna penale. La soap mediatico-giudiziaria va oltre il ridicolo

di Giuliano Ferrara | 12 Maggio 2016 ore 20:15 Foglio

Abbiamo appena istituzionalizzato il desiderio omosessuale e altri desideri che superano i confini del gender e della famiglia costituzionale, e debitamente festeggiato in piazza con nastrino arcobaleno il giorno della liberazione, e i magistrati di Bari nelle motivazioni di una sentenza parlano di “libidine” e di “ragazze spregiudicate” in relazione a un uomo molto ricco che ha deciso in una fase della sua vita di divertirsi, con un giro di amici e amiche, mettendo su una specie di harem personale nelle sue grandi case. L’uomo ricco ricopre anche una importante carica pubblica, è amato e avversato alla stessa stregua da due metà degli italiani. Fa tutto da privato, ma per così dire con le cautele gratificanti della pubblicità degli eventi. Si fa anche fotografare con in braccio alcune donzelle nell’atto assai libidinoso di mangiare un gelato di produzione della Villa Certosa. Parlerà, messo sotto accusa, di cene eleganti, e di burlesque, cioè di spettacolini all’insegna del grottesco. Sosterrà con le sue risorse un assetto festaiolo, consolatorio e desiderante, dall’esplicito risvolto erotico, in perfetta sintonia con le nuove ideologie democratiche del corpo umano e delle sue voglie. Il giudizio di compatibilità tra ruolo pubblico e comportamento privato non spetta ai bacchettoni della morale, non spetta a magistrati che si trasformano in censori del senso comune del pudore, spetta eventualmente solo agli elettori o alla libera stampa (se ci fosse una stampa veramente libera).

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 Il ricco signore e uomo pubblico ha la sua identità personale e la sua immagine indebolite e vessate da una campagna di indagini che insieme ad altri fattori politici induce la sua estromissione dal ruolo pubblico scelto per lui dall’elettorato, ma si ritorce contro la serietà professionale dei suoi accusatori e la loro competenza in fatto di giurisdizione, perché i giudici del tribunale, nel caso esemplare del processo per l’accoglienza alla signora Karima El Mahroug e ad altre amiche, negano la condanna dell’imputato nel giudizio di appello e in Cassazione. Ma la marea moralista travestita da giustizia penale non rifluisce. Nuove motivazioni di sentenza, appunto il recente caso di Bari, emettono, al posto di impossibili verdetti di condanna per responsabilità penali personali, giudizi opinabili e grossolani sull’eleganza o meno delle passioni edoniste di un maschio adulto e facoltoso. Dilaga una sorta di eterofobia populista, un’attitudine obliquamente censoria nell’èra dell’amore universale e indiscriminato segnata dalla legittimazione di ogni altra forma di legame tra esseri umani. Libidine & spregiudicatezza: si ride e si piange, la soap mediatico-giudiziaria continua oltre i confini del legale, del penale, del senso del ridicolo. Una società farcita di sesso desiderante in ogni angolo del suo cuore commerciale e di consumo, improvvisamente si fa censoria nelle forme impresentabili di tanti anni fa, appunto quelle del comune senso del pudore.

Tribunali sbagliati emettono pacchiane motivazioni sbagliate. Ai tempi del caso Braibanti, uno studioso e artista accusato praticamente di sodomia e plagio nei confronti di due giovani suoi amici, ci fu il coraggio civile di sottoporre a scrutinio le idee del dottor Orlando Falco, inteso come magistrato dotato di una sgradevole aggressività giudiziaria e retrograda. Il reato stesso di plagio alfine fu abolito di fronte alle porte della maggiore età, delle relazioni di piacere tra adulti consenzienti. Oggi nessuno ha il coraggio di dire che la “furbizia orientale” della signora El Mahroug, la “libidine” del maschio adulto e ricco e la “spregiudicatezza” delle amiche con cui è stato generoso di sé e del suo sono metafore di un pensiero giudiziario da bar sport, grottesche espressioni codine nel mondo dei Gay Pride e della cultura pop del piacere assoluto, svincolato da ogni restrizione che non sia la libera coscienza del desiderio in capo alle persone e al loro corpo.

Categoria Giustizia

COMMENTI

ranco bolsi • 11 ore fa

Poche ore fa lei ha scritto un “libello” molto netto: Fine delle battaglie culturali in relazione all’approvazione da parte della maggioranza parlamentare della legge sulle unioni civili-omosessuali. Giusto. La vicenda Berlusconi non è una battaglia

culturale con implicazioni morali era e resterà una battaglia politica. Sia

condotta dall’avversario di sinistra e dalla ridicolmente “libera” stampa. Lo

scandalo semmai è che la prosecuzione della lotta politica sia stata condotta

anche in aule giudiziarie. Un’interpretazione singolare del trattato sulla

guerra di Von Clausewitz. E questo sì che ha implicazioni etiche, politiche e

giuridiche di non poco conto. Non credo alle cene eleganti, né al burlesque.

Direi le roi s’amuse, tranquillamente, con persone adulte, pur giovani, che

sapevano benissimo cosa facevano. Giovani donne che concedono le grazie a

persone attempate e nemmeno straricche, sono fatto antico, presente e futuro. Punto. Non c’è stata coercizione, incapacità d’intendere e di volere o violenza

carnale. Quindi tutta la vicenda è fuffa. Si può dissentire il comportamento

sia delle giovani sia del ricco signore sotto il profilo dell’opportunità, nulla

più. Com’è lecito dissentire la legge Cirinnà, e il governo che l’ha voluta, poiché

ha notevoli implicazioni antropologiche che la vicenda Berlusconi non ha. La libidine, consenziente e vecchia come l’umanità, oggetto di reprimenda penale contrariamente al desiderio indistinto approvato, è la cartina di tornasole di una civiltà in stato d’agonia permanente.

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