La scalata delle toghe in Sicilia

C'è un'ecatombe giudiziaria nella regione. Colpisce la mole dell’ondata di avvisi di garanzia, aggravata in certi casi dal ricorso a motivazioni piuttosto discutibili. I magistrati devono accertare reati o moralizzare?

di Ermes Antonucci 18 Aprile 2018 alle 20:46 www.ilfoglio.it

Sono già otto i deputati della nuova Assemblea regionale siciliana, insediatasi lo scorso 15 dicembre, finiti coinvolti in vicende giudiziarie e indagati. Otto su settanta, vale a dire l’11 per cento di tutti i deputati eletti, più di uno su dieci. Un’ecatombe giudiziaria, risultato di un protagonismo sempre più invasivo della magistratura sicula nella vita pubblica della regione.

I segnali c’erano già stati tutti prima delle elezioni regionali, quando a giugno la magistratura aveva di fatto mandato all’aria le elezioni comunali di Trapani. Appena conclusi i termini di presentazione delle liste, prima la Direzione distrettuale antimafia di Palermo aveva chiesto il soggiorno obbligato per il senatore e candidato di Forza Italia Antonio D’Alì, ritenendolo “socialmente pericoloso” nonostante fosse stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, poi i colleghi della procura palermitana avevano scoperchiato un presunto caso di corruzione nel trasporto marittimo, ottenendo gli arresti domiciliari per un altro candidato, Girolamo Fazio (già sindaco dal 2001 al 2012), sostenuto dai centristi.

L’iniziativa della magistratura spinse Fazio, vincitore al primo turno con il 33 per cento dei voti, a ritirarsi dalla corsa elettorale. Pur di non cedere il ballottaggio al terzo classificato (D’Alì), però, Fazio decise di non presentare la lista degli assessori come richiesto dalla legge siciliana, obbligando il candidato del Pd, Pietro Savona, a un ballottaggio in solitaria, ma con la condizione del raggiungimento del quorum di votanti del 50 per cento. A votare andò solo il 26% dei trapanesi e alla fine la gestione del comune fu affidata a un commissario straordinario, con le funzioni di sindaco, giunta e consiglio comunale. Frittata completata.

Messe da parte le elezioni trapanesi, le mira degli inquirenti si spostano sulle elezioni regionali di novembre. Già prima del voto si moltiplicano gli avvisi di garanzia nei confronti dei candidati, nel tripudio degli organi di informazione, che alimentano la retorica dell’“impresentabilità” rincorrendo sospetti di collusioni mafiose e persino parentele discutibili. La marcia dei pm non si ferma anche dopo l’elezione dei deputati, col risultato che oggi sono otto gli eletti indagati. L’ultimo a finire nel calderone è stato il deputato Pippo Gennuso, posto martedì scorso agli arresti domiciliari con l’accusa di voto di scambio aggravata dal metodo mafioso.

E’ chiaro che per alcuni degli indagati gli inquirenti avranno avuto le loro ragioni, ma certamente colpisce la mole dell’ondata di avvisi di garanzia, aggravata in certi casi dal ricorso a motivazioni piuttosto discutibili.

E’ il caso, ad esempio, di Luigi Genovese, figlio dell’ex parlamentare Francantonio, eletto a soli 21 anni nelle fila di Forza Italia con il record di preferenze (18 mila) nella provincia di Messina, nonostante il tam tam mediatico con cui era stato bollato come “impresentabile” per il suo essere figlio di un ex senatore condannato in primo grado. Dopo neanche tre settimane dall’elezione, il neodeputato Luigi è stato indagato con il padre per riciclaggio. La famiglia Genovese – ribattezzata “dinastia” – è oggetto di un sequestro multimilionario (si parla di cento milioni di euro). Ma ciò che più impressiona sono le parole usate dal giudice delle indagini preliminari di Messina, Salvatore Mastroeni, nel decreto di sequestro. Valutazioni personali e morali che vanno ben al di là dell’accertamento di condotte penali. La famiglia Genovese viene definita come “la faccia della criminalità che vive nei piani alti e nei salotti buoni delle città, con abiti eleganti e quei grandi mezzi dalla capacità attrattiva immensa, non certo emarginata come i ladri di strada”. Non solo: “Resta oggettivo – scrive il gip – che rubare allo Stato circa 20 milioni di euro è, con ogni distinguo che si voglia fare, molto più grave del prendere di notte, sulla pubblica via, un’autoradio o un motorino, pur condotte che in flagranza portano quasi automaticamente al carcere e rendono soggetti miserabile non da frequentare, delinquenti”.

Conclude poi il gip: “La circostanza della ricchezza improvvisa del Genovese Luigi, il suo notorio ingresso in politica, il modo spregiudicato di acquisizione della ricchezza, danno la probabilità, sia pur per la visione cautelare di protezione dei beni e dei soldi dovuti allo Stato, che si verifichi la stessa attività del padre”. Un ragazzo di 21 anni esposto al pubblico ludibrio per la “probabilità” di una sua condotta illecita.

I Genovese saranno anche colpevoli, ma i cittadini pagano i magistrati per accertare reati o per moralizzare?

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