Fanno quel che vogliono, e chiamano informazione il circo mediatico-giudiziario

Questa di Roma proprio mafia non è  Roma e la mafia cravattara. La differenza tra un Riina e un pugno di delinquenti spiegata da un magistrato con le palle

di Giuliano Ferrara | 12 Aprile 2015 ore 06:12

Repubblica sabato se l’è presa con noi del Foglio e, sulla scia di un pronunciamento della Cassazione, ha ribadito che la corruzione municipale nei giri cooperativi e politici romani è mafia. Anzi Mafia Capitale. Capital Mafia, una roba con la maiuscola e la centralità statale. Non importa polemizzare con l’editorialista pistarolo Carlo Bonini, le polemiche tra giornalisti non rivestono grande interesse in sé. Importa riflettere sul funzionamento del circuito o circo mediatico-giudiziario in Italia. Perché la Cassazione è autorevole, e ci si conforma alla sua sentenza, ovvio, quando stabilisce su ricorso che sì, il teorema del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, e dei suoi sostituti che hanno indagato con le intercettazioni a strascico, con procedure rafforzate ed esemplari e spettacolari in virtù dell’ipotesi di associazione mafiosa ex articolo 416 bis, è un buon teorema, un teorema che regge alla prova dell’esperienza, come hanno retto la relatività generale o la meccanica quantistica.

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Ma le modeste obiezioni del Foglio sono state superate? Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame obiettivo delle sue tesi? Non è questa la funzione di un buon giornalismo, senza voler disconoscere la buona fede e l’impulso di giustizia che guida la grancassa dell’informazione generale, che milita con i pm praticamente senza eccezioni. Un buon giornale guarda la realtà delle cose, e solo in base a intuizione, esperienza, analisi dei fatti, controargomentazione, esercizio del dubbio, arriva poi alle sue conclusioni. Specialmente in un caso come questo.

Anche i bambini con il loro sguardo ingenuo e innocente, e proprio dall’esame delle intercettazioni, dei capi d’accusa, delle fattispecie di reato, del contesto fattuale e ambientale della cosiddetta “mafia romana” allocata presso una pompa di benzina in mezzo ai cravattari o usurai, sarebbero in grado di capire che qualcosa non funziona. Non funziona una indagine giudiziaria annunciata a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone. Non funziona in ogni senso la sede dell’annuncio: un convegno del Partito democratico. Non funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo. Questi non sono i Pentagon papers, questo è un metodo giustiziere che origina da un potere invasivo dei pm, i quali pensano di poter orientare l’opinione pubblica, e ci riescono ampiamente, in base a un procedimento inquisitorio che si colora subito di politica, di cultura non garantista della giurisdizione, al di fuori di quel che è sempre, in tutti gli altri paesi democratico-liberali del mondo, un conflitto alla pari tra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa.

La Cassazione ha dato ragione alla casta togata più influente, quella della Capitale, perché non poteva sollevare lo scandalo di una grande montatura? Non dico questo. Ripeto: le pronunce giudiziarie hanno una loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante altre pronunce giudiziarie. E non mi appello alle diverse opinioni interne alle magistrature, visto che un procuratore della Corte dei conti ha detto chiaro e tondo che lui nella corruzione municipale intorno al Comune di Roma non vede nemmeno l’ombra della mafia. Mi appello ad altro, ed è quello che dovrebbe interessare chi legge e scrive i giornali, chi confeziona e guarda i telegiornali. Anche la sentenza della Cassazione che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre obiezioni.

Non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e violenta di tipo mafioso. Non ci sono delitti di mafia. C’è un’aria di malavita e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati, dell’accoglienza e del volontariato. Accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste, scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli funzionari. Mancano le famiglie, i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia. Mancano gli arsenali, insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo mafioso. Non tutte le associazioni a delinquere, reato in sé capace di allontanare dalla puntuale registrazione di responsabilità personali nei delitti, e sconosciuto ai codici penali delle grandi democrazie moderne, sono di tipo mafioso. E questa, ricostruita a strascico, meno delle altre.

La verità è che l’informazione massificata e orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e non procedurale, stravolge la realtà. D’altra parte che c’entra la evocata “solitudine e delegittimazione dei magistrati”, sia detto con il massimo rispetto per la vittima togata della sparatoria nel tribunale di Milano, con un paranoico sbandato che colpisce un giovane avvocato, prima, poi un incolpevole commercialista e poi un bravo giudice, facendo morte della sua pazzia? Eppure è questo quel che ideologicamente ci hanno propinato nei giorni scorsi. Fanno quello che vogliono, e la chiamano informazione.

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