I 13 secondi di Marina Petruzzella

Chi è il giudice che ha demolito il cuore dell’inchiesta sulla Trattativa

di Riccardo Lo Verso | 08 Novembre 2015 ore 06:17 Foglio

Palermo. Le sono bastati tredici secondi per travolgere anni di indagini. Giusto il tempo necessario per leggere il dispositivo della sentenza con cui ha assolto Calogero Mannino. Poi, il giudice Marina Petruzzella ha abbandonato la scena.

Non sarà mica stato per evitare le telecamere? Il dubbio è legittimo, visto che il giudice non era passata dalla sala trucco. E neppure dal parrucchiere. Non che la sua pettinatura fosse in disordine, per carità. Ma di certo la messa in piega non era fresca di giornata. Lei è fatta così, dice chi la conosce bene. Niente apparenza. Non ama i riflettori, ma scrive parecchio. Allora è davvero finita nel posto sbagliato. Perché quello sulla trattativa stato-mafia, sia nella costola manniniana sia nel troncone principale, è stato, è e continuerà a essere roba da riflettori televisivi, libri, paginate di giornali e chi più ne ha più ne metta.

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Faceva quasi tenerezza – nel senso buono del termine – questo giudice minuto al suo ingresso in aula. Lei da sola, con il cancelliere accanto, e di fronte l’antimafia corazzata dei pubblici ministeri, gli occhi vigili delle scorte, gli obiettivi di fotografi e cineoperatori, i taccuini dei giornalisti e dei calligrafi, e i tenutari di agende rosse. Una piccola formica al cospetto di un branco di leoni.

Dovrà farsene una ragione: da oggi, dopo 24 anni in magistratura, Marina Petruzzella sarà soprattutto il giudice che ha demolito il cuore dell’inchiesta sulla Trattativa.

Al Palazzo di giustizia di Palermo c’è arrivata nel 1996, dopo avere lavorato a Bergamo nei primi cinque anni di carriera. Dal 2004 è all’ufficio del giudice per le indagini preliminari. O meglio era, visto che il processo Mannino è l’ultimo che ha celebrato da gup. Si è già insediata in Corte d’assise. Avrebbe dovuto coabitare con Silvana Saguto se quest’ultima non fosse stata sospesa dal Csm per la brutta, bruttissima storia della malagestione delle misure di prevenzione palermitane. Slegata dagli interessi correntizi che zavorrano la magistratura, riservata e con la stanza piena di fascicoli e libri, Marina Petruzzella non ha perso occasione per dare dimostrazione di polso e fermezza.

Ha bacchettato la procura rispedendo al mittente richieste di archiviazione, imponendo proroghe di indagini e ordinando imputazioni coatte. E’ sui reati ambientali e contro la Pubblica amministrazione che ha costruito una grande competenza.

Quasi vent’anni vissuti a Palermo e nemmeno una sua fotografia in archivio. Tranne uno scatto “rubato”, non ce ne voglia, in ufficio mentre ci dice, all’indomani dell’assoluzione di Mannino, che non ha nulla da dire e deve lavorare. Immaginiamo anche per scrivere, entro i 90 giorni, le motivazioni della sentenza con cui ha travolto, più che un’impostazione accusatoria, un monumento dell’antimafia edificato dai pubblici ministeri e fortificato con le comparsate televisive, gli articoli sui giornali, le rassegne teatrali, le pellicole da cinematografo e le fiaccolate con cui si è tentato di marcare il confine fra i buoni e i cattivi, tra i trattativisti e i negazionisti.

 

Pensare che tutto ciò sia finito è pura illusione, nonostante l’assoluzione di Mannino sia un colpo mortale alla tesi dei pm Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia poiché spazza via la parte fondante dell’impianto accusatorio. Secondo i pm, Mannino è stato l’iniziatore del presunto ma scelleratissimo patto fra boss e uomini delle istituzioni. E’ stato Mannino, temendo per la sua vita dopo l’assassinio di Salvo Lima, a chiedere agli ufficiali dei carabinieri di trattare con Totò Riina per evitare che i boss gli facessero la pelle. E’ stato Mannino ad attirarsi la collera dei capimafia che da lui si sentirono traditi quando la Cassazione rese definitiva una sfilza di ergastoli. Ora il gup Petruzzella dice che Mannino non ha commesso nulla di tutto ciò. Non è stato l’ispiratore della Trattativa. E’ finita? Nemmeno per idea. Innanzitutto ci sono il processo principale ancora in piedi e l’inchiesta bis con la quale si ipotizza che il dialogo segreto con i mafiosi non sia stato condotto solo da politici e carabinieri, già sotto processo, ma pure da uomini dei servizi segreti in un contesto più generale di attacco allo stato. E poi c’è la formula con cui Mannino è stato assolto, quella dell’art. 530 (c.p.p.) prevista quando “la prova manca, è insufficiente o contraddittoria”. Uno spiraglio per tutti, per i pubblici ministeri che impugneranno la sentenza (Di Matteo è certo, il procuratore Lo Voi prima vuole leggere le motivazioni), per i salottieri delle tivù e gli scrittori di libri.

Categoria Giustizia

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