Perché i magistrati non sono mai responsabili dei loro errori

La tortura giudiziaria a Cosentino e poi Cocchi, Incalza e Palenzona. Storie italiane sul particolare senso di impunità (e onnipotenza) dei giudici. Sì, è vero: nessuno ci può giudicare

di Giuseppe Sottile | 18 Marzo 2016 ore 10:49

Vogliamo parlare di Nicola Cosentino, sporco e cattivo uomo della filiera berlusconiana, detenuto da ottocentocinquanta giorni senza un processo e senza una condanna? O preferiamo ricordare la storia di Paolo Cocchi, uomo di cultura e di tenace fede democratica, condannato a un calvario giudiziario di quasi sei anni e ora finalmente assolto per palese e smaccata  “insussistenza dei fatti”?

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Vogliamo ripescare i predicati molesti che hanno accompagnato Ercole Incalza, potente superburocrate di strade e ferrovie, nelle quattordici inchieste aperte con grande spolvero a suo carico e puntualmente chiuse con altrettante e silenziosissime scuse? O è più utile richiamare le ebbrezze incorruttibili con le quali la gagliarda procura di Firenze ha relegato per alcuni giorni un innocentissimo Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit, nel girone dei reprobi, per di più macchiati dall’infamia di una collusione mafiosa? Certo, sarebbe ingeneroso sostenere che questa è l’ordinaria amministrazione della giustizia in Italia: perché nei tribunali d’Italia ci sono tante buone inchieste e tanti bravi giudici.

Ma sarebbe quantomeno omertoso negare che, dietro l’avventatezza di alcuni provvedimenti, ci sia una visione approssimativa dei diritti degli altri o, peggio, un interesse privato. Ricordate Mani pulite? Mentre vorticava nelle piazze la furia delle forche e si lanciavano le monetine, nei palazzi di giustizia si costruivano nuovi equilibri politici e si consolidavano carriere destinate a condizionare per anni la vita di procure e tribunali.

Oggi, comunque, il pool di Mani pulite non c’è più, anche se resistono i combattenti e reduci: da Piercamillo Davigo, in corsa per la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati, a Francesco Greco, in corsa per il vertice della procura che fu di Saverio Borrelli. Resta vivo e vegeto però quel  particolarissimo senso di impunità (e di onnipotenza) che negli anni di Mani pulite finì per contagiare frange sempre più estese di magistrati. I quali –  cavalcando l’onda delle emergenze: da un lato la corruzione, dall’altro lato la mafia – non solo riuscirono a cristallizzare la dilatazione dei poteri, a cominciare da quell’imbroglio giurisdizionale che è il concorso esterno, ma riuscirono pure a convogliare, sui propri uffici e sulle proprie decisioni, privilegi che alla resa dei conti li avrebbero messi al riparo da qualsiasi contestazione.

Provate a chiedere oggi chi è il responsabile della tortura giudiziaria combinata in quel di Napoli a Nicola Cosentino o delle otras inquisiciones inflitte a Cocchi, a Incalza o a Palenzona. Vi risponderanno che c’è l’autonomia del magistrato e l’obbligatorietà dell’azione penale, che c’è la dialettica processuale e il libero convincimento del giudice. E se non siete ancora convinti del fatto che un procuratore o un semplice pm possa tentare ogni forzatura senza mai pagare pegno, mettetevi l’animo in pace: prima o poi vi diranno che tutto ciò che un cittadino può subire e patire dentro le mura di un Palazzo di giustizia è comunque previsto se non dal codice, certamente da un combinato disposto: che è, appunto, quel matrimonio spesso innaturale, tra due o più articoli di legge, tra due o più paragrafi di una norma, tra due o più note a margine. Se si  pensa che il sistema conta in Italia 40 mila leggi e 80 mila regolamenti è facile immaginare quanti cavilli e quanti strumenti di salvaguardia possono essere costruiti su ogni  comma e su ogni combinato disposto. Una giungla, indubbiamente. Che sembra fatta apposta per legittimare tutto e il contrario di tutto, per coprire abusi e soverchierie, per incoraggiare inadempienze e perdite di tempo.

Può apparire disarmante ammetterlo, ma non basteranno né anni né decenni per colmare la distanza che separa la qualità della giustizia, che giudici e magistrati amministrano in nome del popolo, dalle garanzie e dai privilegi di cui godono quegli stessi giudici e quegli stessi magistrati.

Per descrivere il felice mondo delle toghe bastava fino a qualche mese fa ricordare pochi dettagli: carriera assicurata sia ai meritevoli che agli asini, porte girevoli tra i palazzi di giustizia e i palazzi della politica, pensione a 72 anni e non a 70 come i comuni mortali, libertà di zampettare senza sosta tra convegni e dibattiti, facoltà di scrivere libri e andare in giro come trottole per presentarli; e se il processo non arriva mai a sentenza, chi se ne frega del processo. Ma da quando è esploso a Palermo lo scandalo delle misure di prevenzione, con le anime belle dell’antimafia che traccheggiavano con avvocati e commercialisti per spartirsi i beni confiscati alla mafia, le voci che prima erano soltanto dicerie si sono aggrumate in un dossier sul quale farebbero bene a gettare un occhio sia il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è a capo del Consiglio superiore della magistratura, sia il ministro Guardasigilli, Andrea Orlando, sempre sul punto di presentare riforme che forse avrebbero bisogno di ben altri tempi e ben altri impulsi. Perché il dossier Palermo, intestato a Silvana Saguto, che della sezione misure di prevenzione era presidente, mostra  anche a chi non vuol vedere di che sale è fatto il pane dei magistrati.

L’inchiesta, condotta dalla procura di Caltanissetta, è nata nel giugno dell’anno scorso per un caso fortuito, quasi per una ineluttabile coincidenza. Altrimenti nessuno si sarebbe azzardato a mettere le mani in un feudo che la presidente Saguto amministrava come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. Al banchetto partecipavano, oltre a una ristrettissima cerchia di professionisti della parcella, anche alcuni colleghi della Saguto, tra i quali l’autorevolissimo giudice Tommaso Virga che, stando sempre alle accuse formulate dai procuratori nisseni, aveva fatto in modo che il figlio Walter diventasse amministratore straordinario di un impero da 800 milioni, sequestrato alla famiglia mafiosa dei Rappa.

A Silvana Saguto i pm di Caltanissetta contestano i reati di corruzione, abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità. Roba da fare tremare i polsi. Mentre a Tommaso Virga viene contestata la concussione. Ma, nonostante la pesantezza delle accuse, i due giudici rimangono tranquillamente, e per quasi due mesi, ciascuno al proprio posto: cioè nei propri uffici, con le proprie scorte, tra le stesse carte che avevano dato origine allo scandalo.

Cane non mangia cane, si dirà. E in ogni caso che Dio ci guardi sempre e comunque dalla carcerazione preventiva. Ma il vero guanto di velluto, la vera solidarietà di casta, arriva qualche settimana dopo quando il Csm, chiamato a fronteggiare l’onda d’urto dello scandalo palermitano, convoca i magistrati coinvolti per le conseguenti decisioni.

Bene. In attesa che l’inchiesta di Caltanissetta arrivi a sentenza definitiva, Silvana Saguto viene provvisoriamente sospesa, ma la legge e il combinato disposto consentono ai consiglieri di Palazzo dei Marescialli di graziarla sullo stipendio: glielo decurtano di un terzo e lei dovrà adattarsi a vivere, senza lavorare, con meno di quattromila euro al mese. Tommaso Virga viene invece condannato, si fa per dire, al trasferimento d’ufficio: dal tribunale di Palermo passa alla Corte di appello di Roma. Di fatto, una promozione.

Il figlio Walter, del resto, lo aveva addirittura profetizzato. Quando l’inchiesta non era ancora esplosa ma già si avvertivano le prime indiscrezioni di stampa, il giovane amministratore tentava di rassicurare la moglie: “I magistrati – diceva in una telefonata puntualmente intercettata – si difendono tra loro… io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio ottomila magistrati ne difendono uno”.

L’imprevedibile Walter, per quanto ingenuo e fanfaronesco, aveva chiaro quello che Guardasigilli e Consiglio superiore della magistratura non avranno mai il coraggio di ammettere. E che Edgar Allan Poe, nella “Lettera rubata”, fantasticamente attribuiva alla “invisibilità dell’evidenza”.

Categoria Giustizia

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