Prescrizioni allungate, una resa

I processi senza fine ledono i diritti delle persone

 di Domenico Cacopardo www.cacopardo.it Italia Oggi 2.5.2016

Gli italiani sono da sempre abituati a barattare i principi con le convenienze. Il Regno Unito, per esempio, affrontò una guerra difficile e costosa a migliaia di chilometri per ristabilire il principio che l'occupazione delle Falkland era un inaccettabile atto di guerra. La convenienza spinse Bettino Craxi a negare solidarietà a Margareth Tatcher per schierarsi, di fatto, a fianco dei militari golpisti al potere a Buenos Aires. I princìpi militavano per una politica di rispetto della sovranità nazionale della Libia, le convenienze spinsero Silvio Berlusconi ad appoggiare l'aggressione anglo/francese.

Gli episodi sono infiniti e riguardano soprattutto la politica italiana. Non il caso Moro, nel quale si confrontarono due principi di rango equivalente: lo Stato non tratta con il terrorismo (come s'è visto poi negli anni, dalle due Simone alla Sgrena e via dicendo), la vita umana dev'essere tutelata e difesa in ogni caso, come bene prioritario. Certo, dietro queste due posizioni, c'erano interessi pelosi: quello dei vertici Dc e del Pci di chiudere la partita e, quindi, di archiviare le parole che il leader democristiano tremebondo e terrorizzato aveva imprudentemente pronunciato accusando i vertici dei due partiti sul piano degli «affari». Dall'altro c'era l'interesse di Craxi a riportare a casa Moro e, tramite suo, destabilizzare l'intesa denominata «compromesso storico» che aveva preso, con Giulio Andreotti, il potere in Italia.

Spesso le convenienze vengono fatte passare per principi: vedi il caso marò. Qui, Mario Monti e il suo ministro della difesa ammiraglio Giampaolo Di Paola pretesero che i nostri marinai, detenuti illegalmente in India, rientrassero laggiù dopo una «breve licenza elettorale». La ragione era quella di «onorare la parola data». Ma chi può considerare un impegno, quello assunto dal sequestrato nei confronti del sequestratore? Aveva pienamente ragione il ministro degli esteri Giulio Terzi a opporsi al «respingimento» in India dei nostri marinai. E, coerentemente, si dimise dal ruolo cruciale che ricopriva.

Che ci fossero interessi sostanziali tra il «kombinat» industriale-militare e l'India viene sussurrato in tutte le sedi e sarebbe confermato da qualche procedimento giudiziario in corso. Ora, dopo l'elezione del dottor Piercamillo Davigo (una scelta, questa della magistratura italiana di lotta a tutto campo), sembra che il governo, intimorito, stia tentando un'accelerazione sul controverso tema della prescrizione. Da quello che si dice nei corridoi ministeriali, sembra addirittura che si pensi a uno stralcio della prescrizione dal complesso della riforma del processo penale già in avanzato corso di esame in Parlamento. Ecco come confliggono in principi e le convenienze. I principi postulerebbero termini ragionevoli per la celebrazione dei processi in tutti i gradi di giudizio, per dare ai cittadini un sollecito servizio di giustizia. Molti motivi ostacolano l'esperimento e la conclusione dei processi nei termini attualmente in vigore. Motivi e responsabilità che riguardano tutti.

Anche la magistratura. In nessun caso e in nessun posto al mondo può funzionare un sistema fondato sul principio di anarchia interna. Già, il cosiddetto governo del Consiglio superiore della magistratura è putativo e talmente flebili sono i poteri dei capi degli uffici giudiziari, da sostanziarsi in una mera moral suasion (persuasione morale). Lo sfascio degli uffici giudiziari con cause (civili) già oggi in rinvio a dopo l'anno 2020 non appartiene alla civiltà occidentale, ma un mondo preliberale, nel quale il disprezzo per i diritti del cittadino è la regola delle strutture statuali. E dell'avvocatura che prospera nel caos e gestisce il proprio «patrimonio di cause» come un capitale da tenere stretto nelle proprie scarselle.

Ho già raccontato e lo ripeto oggi. Essendosi avviato un radicale programma di recupero di un arretrato di circa 30 mila ricorsi a opera del presidente Alfonso Quaranta (poi assurto alla presidenza della Corte costituzionale) un suo collega venne, in sua assenza, nella sala delle adunanze e ci prese per pazzi (perché cooperavamo allo smaltimento dei vecchi ricorsi) con queste indimenticabili parole: «L'arretrato è potere». A parte il resto, l'allungamento delle prescrizioni è una resa dello Stato (e in esso dell'autorità giudiziaria) alle proprie insufficienze. Dal punto di vista pratico avrà gli stessi effetti dell'aumento delle pene tabellari: non un reo di più sarà individuato, non un reo in più sarà condannato. Perché le questioni sono diverse e precedono il processo penale. La prima è di diritto amministrativo: solo azzerando i poteri discrezionali, i pubblici dirigenti saranno costretti ad attuare la legge senza tentennamenti. Perciò l'esercizio della concussione o della corruzione diventerà ontologicamente più difficile se non impossibile. Dai testi delle leggi che escono da Palazzo Chigi dovrebbero essere cassate le parole «qualità» e «opportunità» a favore di precetti precisi e cogenti.

In secondo luogo, dovrebbe essere inserita (e non è poi così difficile) una norma che crei il contrasto di interessi tra chi denuncia il crimine (la corruzione) e chi il crimine cerca di celare. Una normativa premiale che ebbe effetti risolutivi per le Brigate rosse e affini. Con un codicillo ostico ai poteri costituiti (tutti, compresi quelli giudiziari): imporre all'Agenzia delle entrate di segnalare le crescite patrimoniali anomale, perché non giustificabili con i redditi dichiarati. Invece, oggi non sono i principi a dettare le mosse del giovane premier Matteo Renzi. È la convenienza che lo spinge a cedere su una delle richieste formulate da Davigo e dall'Anm: il prolungamento delle prescrizioni. Se questa decisione deriva dalla speranza di un atteggiamento conciliante e meno severo nei suoi confronti, non si illuda. Anche perché «Non si governa innocentemente» (Saint Just).

Il sistema è giustamente tale che, non appena emergerà il sospetto di un comportamento illecito del primo ministro o di un suo uomo anche di terza fila (ed emergerà presto, comunque prima del referendum di ottobre), l'autorità giudiziaria aprirà (e lo dovrà fare) un fascicolo a suo carico: tra esigenze istruttorie e prescrizioni prolungate ne uscirà, se ne uscirà, a «babbo morto», quando la politica (e la Storia) sarà andata avanti senza di lui come va avanti anno dopo anno.

Categoria Italia

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