La Germania è l’alibi, non il nemico: una risposta a Roberto Napoletano

Il direttore del Sole 24 Ore se la prende con chi, in Italia, da voce alle idee tedesche, a suo dire distruttive per la nostra economia. Secondo noi, la realtà è molto diversa. Un estratto dal libro “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione”

di Francesco Cancellato Linkiesta 2.5.2016

«Questo clima è la morte dell’Europa». Così il direttore del Sole24Ore Roberto Napoletano, commenta in un lungo editoriale apparso domenica 1 maggio 2016 sul giornale edito da Confindustria la visita in Italia di Jens Weidmann. Un’editoriale, dal titolo «Loro e noi» che biasima «l’intento malcelato» dell'attuale presidente della Bundesbank «di fare avallare una campagna elettorale, strettamente personale, per la presidenza della Banca centrale europea». Soprattutto, però, il direttore del Sole se la prende «a casa nostra» con quelli che danno ascolto a «chi come Weidmann vuole mettere un tetto agli acquisti di titoli di Stato da parte delle banche o, peggio ancora, attribuire un coefficiente di rischio agli stessi titoli».

È una posizione, quella di Napoletano, che non condividiamo. Perché, a nostro avviso, è figlia di un pregiudizio anti-tedesco che si fonda sull’idea che «loro» (i tedeschi) stiano puntando a indebolirci, in una guerra fredda di reciproca sfiducia. A nostro modesto avviso la realtà è diversa. E la Germania, per l’Italia è più un alibi, che un problema. Soprattutto, per quella parte di mondo imprenditoriale - rappresentato da Confindustria, editore del Sole - che invece ha nei tedeschi il partner principale per il proprio sviluppo futuro. Per questo pubblichiamo un breve estratto tratto da “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (Università Bocconi Editore, 2016), saggio recentemente pubblicato dal direttore de Linkiesta Francesco Cancellato, in cui si affronta il medesimo tema da una diversa prospettiva: quella di una Germania che è la cura, non il male. E di un’Italia che paga, più di ogni supposta - e comunque ben riposta - sfiducia altrui, le proprie ataviche debolezze.

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«Ecco perché alla Merkel conviene un’Italia in crisi», titola Libero il 16 maggio 2012. Tra le tante accuse quella secondo cui la Germania «tenta con regole tipo Basilea 3 di ingessare il credito all’economia reale», processo, questo, «pernicioso per l’Italia data la nostra struttura produttiva atomizzata che ha bisogno di microcredito ma non ha un forte patrimonio». E, ancora, l’accusa di deprimere deliberatamente attraverso le politiche di austerità «le economie dei suoi competitor e in particolare dell’Italia, che è il secondo paese europeo esportatore».

Il motivo? Semplice, secondo Libero: «La produzione teutonica è infatti una produzione matura. Meccanica e chimica sul fronte industriale, agricoltura massiva, produzione culturale tradizionale, elettronica di servizio. La Francia è invece il paese europeo che ha il maggiore valore aggiunto della sua produzione (non solo tecnologica) e l’Italia è il paese a più forte variabilità di produzione (in agricoltura poi è leader mondiale per valore aggiunto per ogni ettaro coltivato). Dunque la Germania ha un interesse specifico a frenare queste economie». In altre parole, a sabotarle.

È una teoria che può avere una sua logica narrativa, ma che stride con la realtà dei fatti. Per tre motivi, almeno: perché non c’è né la volontà né la necessità da parte della Germania di affossare l’Italia, innanzitutto. Ma anche perché, qualora fosse questo lo scopo, lo starebbe facendo nel modo sbagliato.

Che non ci sia né la necessità né la volontà di far male all’Italia è in qualche modo autoevidente. Se si scorrono i beni che l’Italia importa di più – al netto di energia e materie prime – troviamo nell’ordine prodotti chimici, autoveicoli, prodotti siderurgici e macchinari di uso generale. Tutti settori in cui la Germania è altamente specializzata. Non a caso, infatti, la Germania esporta in Italia prodotti pari a circa 54 miliardi di euro di valore, ovvero circa il 6,1 per cento dell’export di Berlino. Tanto per fare un paragone, negli Stati Uniti – che sono dieci volte il Belpaese – esporta solo per 113 miliardi. In un anno di crisi per l’Italia come il 2012, per esempio, le esportazioni tedesche sono diminuite di oltre 6 punti percentuali. In altre parole, se l’Italia non cresce o, peggio, va in recessione, è un problema anche per i tedeschi.

Non solo: le due economie sono estremamente interdipendenti anche dal lato della produzione. Nel settore dell’automotive, per esempio, o in quello dell’automazione industriale, dove buona parte delle grandi produzioni tedesche è piena zeppa di componentistica italiana. L’Italia, infatti, esporta in Germania per un controvalore di circa 50 miliardi di euro, un terzo circa del quale è fatto da autoveicoli, macchinari e apparecchiature elettriche. Settori che hanno trainato la crescita dell’export italiano in questi anni, così come hanno aggiunto valore a quello tedesco. Difficile, insomma, credere che ci sia in atto una deliberata strategia per indebolire uno dei più importanti mercati di sbocco dei prodotti tedeschi, deprimendone la domanda interna, nonché uno dei più importanti fornitori delle sue grandi imprese, chiudendogli i rubinetti del credito. Se così fosse, sarebbe materia per psichiatri più che per economisti.

Ciò che in Italia si fatica a comprendere è che con ogni probabilità le difficoltà della nostra economia dipendono più da fattori strutturali interni che dalle politiche di austerità, siano esse autoimposte o prescritte dall’esterno

 

Ciò che in Italia si fatica a comprendere, piuttosto, è che con ogni probabilità le difficoltà della nostra economia dipendono più da fattori strutturali interni che dalle politiche di austerità, siano esse autoimposte o prescritte dall’esterno. Non fosse altro per il fatto, per esempio, che altrove le politiche di austerità sono state tutto fuorché recessive, producendo benefici per i paesi che le hanno adottate. Se volessero farci del male non ci imporrebbero le ricette economiche con cui si sono risollevati loro e paesi come l’Irlanda – +7 per cento di crescita del Pil nel 2015 e un deficit che scende al 2,1 per cento del Pil, dopo aver superato il 30 per cento nella fase più acuta della crisi – o la Spagna – +3,4 per cento di crescita del Pil nel 2015, con un tasso di disoccupazione al 21,1 per cento, il più basso degli ultimi quattro anni.

Lo stesso euro, pur essendo in effetti una moneta molto diversa dalla lira, non può essere accusato di tutte le difficoltà italiane. Non può perché la crescita del Pil e del reddito pro capite in Italia è inferiore a quella di gran parte del resto dell’Europa sia dopo l’introduzione della moneta unica sia prima (sebbene nel decennio precedente la crescita sia stata superiore in valori assoluti). Né si può dire che il gap tra noi e gli altri si sia ampliato a causa dell’euro: «Nel valutare questa possibilità dobbiamo considerare il differenziale di crescita del reddito pro capite tra l’Italia e gli altri paesi avanzati (dentro e fuori l’area euro)» ricorda Livio Stracca, Senior Advisor presso la Banca Centrale Europea, in un intervento su LaVoce del 24 aprile 2013. «I dati per gli anni Settanta, Ottanta, Novanta e 2000-2012 dicono rispettivamente: +0,6, +0,1, –0,4, –0,8. In pratica, abbiamo perso mezzo punto relativamente agli altri ogni decennio, euro o non euro».

Allo stesso modo, la svalutazione competitiva, oggi ricordata come una panacea dai nostalgici della lira, appartiene più all’aura delle leggende che a quella dei rimedi contro il declino. Non fosse altro per il fatto che, come ricorda ancora Stracca, «nei trent’anni precedenti all’introduzione dell’euro l’Italia è stata in un sistema di cambi flessibili solo dal 1973 al 1979 e all’inizio degli anni Novanta, dopo l’uscita dallo Sme». Non solo, ma nonostante le brevi finestre temporanee successive alle due grandi svalutazioni del 1973 e del 1992, il tasso di cambio reale – ponderato cioè in base al tasso d’inflazione e ai flussi del commercio verso aree concorrenti – è rimasto sostanzialmente stabile. Fuori dal gergo carbonaro da economisti: non è stato mai o quasi un problema di moneta, quello della competitività italiana. Né ieri, né oggi, né tantomeno domani. Tanto più che l’Italia del 2015 è molto diversa da quella di quarant’anni fa. L’epoca dei cinesi d’Europa e delle copie a basso costo è finita da un pezzo. Oggi il Belpaese esporta prodotti di grande qualità e costo elevato. Una strategia fatta di meno quantità e più valore che trarrebbe scarsi benefici dalla svalutazione della moneta.

Di certo meno di quanti ne trarrebbe da una giustizia civile che funziona, da un’amministrazione pubblica efficiente, da un’attività di formazione e ricerca all’avanguardia. E magari da una lotta efficace a corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata. Tutti pezzi di un altro sabotaggio, ben più pericoloso, anche esistesse, di quello tedesco. Perché perpetrato, quotidianamente, dal nemico più pericoloso dell’Italia. Gli italiani.

Categoria Italia

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