Il populismo va bene per la lotta, ma non per il governo.

Rileggere Pareto saggio del 1921 intitolato “Trasformazione della democrazia”   porterebbe consiglio ai partiti tradizionali sotto scacco

Vilfredo Pareto Google foto

Lorenzo Castellani Direttore scientifico Fondazione Luigi Einaudi 9.7.2016 

In un saggio del 1921 intitolato “Trasformazione della democrazia” (ora riproposto dalla casa editrice Castelvecchi), Vilfredo Pareto analizzava l’avvento della “plutocrazia demagogica” per segnalare la crisi dell’ordine borghese liberale nelle democrazie europee con l’avanzata della demagogia popolare da un lato e il declino della plutocrazia e dei grandi interessi economico-finanziari che avevano retto il processo di industrializzazione fino a quel momento. Sappiamo come è andata a finire: le istanze sociali e le pretese del popolo operaio, “i sentimenti” nel lessico paretiano, vennero intercettate dalla reazione demagogica, gli ordini costituzionali e internazionali di matrice liberale collassarono, i regimi autoritari si affermarono sul continente. In quel caso, crisi economica e trasformazioni sociali, sottovalutate dalla classe politica liberale, aprirono il varco alle dittature e alla sovversione dell’ordine internazionale. Oggi ci troviamo davanti a una seconda trasformazione della democrazia che il caso Brexit, e prima ancora la questione greca, riescono a esemplificare in maniera efficace. Le democrazie contemporanee, infatti, sono sempre di più un pendolo che oscilla tra populismo e tecnocrazia. Da un lato, le urne piene di movimenti che fanno della rabbia, della sovranità come viatico per il controllo delle frontiere, della sicurezza sociale, e dall’altro l’inestricabile complessità con cui queste forze politiche sono costrette a confrontarsi dopo aver vinto le elezioni: i vincoli delle burocrazie, le strutture sovranazionali, le pressioni legislative delle grandi imprese, le regole dei mercati internazionali e della finanza pubblica integrata. Sono due forze che oggi collidono e, allo stesso tempo, si compenetrano.

Tanto il “Leave” quanto l’ascesa greca di Alexis Tsipras hanno mostrato toni apocalittici, dal “take back control” al “potere nelle mani del popolo”, capaci di convincere la maggioranza degli elettori a un promessa di rottura. Risultato? Il programma di governo di Tsipras è stato dettato dalla Troika e il premier greco non ha ottenuto che qualche mese di tempo in più per riforme non rinviabili né contestabili a Bruxelles e sui mercati. La Brexit ha aperto un fronte di incertezza istituzionale che ha messo in crisi l’intero sistema politico britannico e, in particolare, gli ambasciatori del “Leave”. La facilità elettorale del ritorno alla sovranità si è scontrata con la realtà della tecnocrazia europea, delle regole comunitarie, della finanza globale. Anche in questo caso si avvierà una procedura lunga anni, economicamente e giuridicamente complessa che porterà il Regno Unito con mezzo piede fuori dall’Unione europea.

Gli opinion-maker europei continuano giustamente ad agitare lo spettro dell’ascesa populista e quello della crisi dei partiti tradizionali, tuttavia bisognerebbe porsi alcune domande.

Prima di tutto, considerati i trend elettorali, se lo stile populista non sia altro che la politica del Ventunesimo

secolo: immediata, feroce, disintermediata, personalizzata perché geneticamente condizionata dalla pervasività dei media. In caso di risposta affermativa, la politica tradizionale dovrebbe rivedere il proprio

messaggio e un certo arroccamento stilistico, molto forte in alcune élite politiche europee che rischiano di sottovalutare la reazione irrazionale di una classe media ancora ampia elettoralmente ma impoverita, arrabbiata e assetata di promesse. La risposta della politica tradizionale non può essere “ortopedica”, ossia mirata a correggere il legno storto del popolo condannando i risultati delle urne, bensì deve offrire politiche

pubbliche in grado di alleviare l’insofferenza degli elettori. Dall’altro lato bisognerebbe chiedersi se l’allarme dei populismi  al governo debba suonare così forte. Cioè se i portatori di un messaggio populista e antisistema, vincitori nelle urne, abbiano realmente spazio di manovra, cioè la possibilità di attentare all’ordine costituito nazionale e sovranazionale, o se invece non siano costretti ad adeguarsi alle strutture di potere della globalizzazione come accaduto nel caso di Tsipras e della Brexit. Insomma, il populismo va bene per la lotta, ma non per il governo. A oggi, la situazione nelle democrazie occidentali non pare ancora così compromessa, almeno in termini di ordine politico globale, sempre che istituzioni e partiti tradizionali decidano di assecondare, e allo stesso tempo guidare, i malesseri popolari per evitare di essere

travolti completamente dai populismi a causa delle proprie rigidità.

Lorenzo Castellani Direttore scientifico Fondazione Luigi Einaudi

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