Stipendi e demagogia. I tabù italiani sul lavoro scoperchiati dal caso Rai

Il problema non sono i salari ma la rigidità di un sistema che impedisce ancora di spostare i dipendenti ad altre mansioni ( e i 16 canali. In GB 9 ndr)

di Luciano Capone | 26 Luglio 2016 ore 10:07 Foglio

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Roma. Come periodicamente accade, soprattutto in un periodo di canone in bolletta, è partita la polemica sui mega stipendi in Rai. Questa volta tutto nasce dall’atteso “piano per la trasparenza e la comunicazione aziendale”, ovvero l’obbligo previsto dalla riforma della Rai voluta dal governo che impone di pubblicare gli stipendi dei dirigenti che superano i 200 mila euro annui. L’operazione, più che applausi, ha prodotto un lancio di uova contro la “casa di vetro” quando i contribuenti (per la Rai “abbonati”) hanno scoperto i primi emolumenti: dai 652 mila euro dell’amministratore delegato Antonio Campo Dall’Orto ai 370 mila della presidente Monica Maggioni. E poi il direttore del Tg1 Mario Orfeo (320 mila euro), il presidente di Rai Pubblicità Antonio Marano (390 mila euro), il responsabile dell’informazione Carlo Verdelli (320 mila euro) e il suo collaboratore Francesco Merlo (280 mila euro), le nuove  direttrici di Rai Due e Rai Tre Ilaria Dallatana e Daria Bignardi (300 mila euro), i direttori di Tg2 e Tg3 Marcello Masi e Bianca Berlinguer (280 mila euro) e così via. Ma ciò che ha destato più scalpore sono le buste paga dei manager e dirigenti parcheggiati, a volte senza incarichi, e quasi sempre senza lavoro: Mauro Mazza, Francesco Pionati, Alfredo Meocci, Carmen Lasorella, Anna La Rosa, Lorenza Lei, tutti con stipendi oltre i 200 mila euro annui e, a differenza dei nuovi manager che hanno contratti triennali come lo stesso Campo Dall’Orto, assunti a tempo indeterminato.

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Di fronte all’indignazione popolare sono poco efficaci gli inviti, anche sensati, a riflettere sul fatto che la Rai è un’azienda parzialmente sul mercato e che quindi offrire stipendi competitivi serve a ingaggiare i manager più bravi. E questo per una serie di motivi, il primo dei quali è una specie di involontaria ammissione dello stesso Campo Dall’Orto, quando ieri in conferenza stampa ha spiegato che è esclusa la pubblicazione dei cachet degli artisti “non per fare loro uno sconto, ma perché la Rai opera su un mercato competitivo. Anche in Inghilterra, gli artisti vengono tenuti fuori. Sono dati sensibili, anche perché noi in Rai li paghiamo meno dei nostri concorrenti”. Implicitamente l’amministratore delegato della Rai sembra affermare che, a differenza degli artisti, manager, dirigenti e giornalisti sono fuori mercato. Inoltre è impossibile resistere agli eccessi di demagogia quando lo stesso governo, più che cercare soluzioni radicali, ha cavalcato a lungo il sentimento anti-casta introducendo il tetto di 240 mila euro agli stipendi dei manager pubblici, che poi è stato facilmente aggirato dalla Rai con un escamotage. E così vince chi urla più forte: per un paio di giorni, in attesa del prossimo scandalo, la politica “si costerna, s’indigna, s’impegna e poi getta la spugna con gran dignità”. Il presidente della commissione di Vigilanza Rai, il grillino Roberto Fico, ad esempio dichiara: “A prescindere se abbia un ruolo apicale o meno, chi non lavora e prende uno stipendio alto per me è sempre licenziabile”. Uno dei problemi più grandi della Rai sono proprio le cause di lavoro e l’impossibilità, non di licenziare, ma solo di spostare i dipendenti ad altre mansioni o in altri incarichi. Un caso eclatante è quello recente della giornalista Ivana Vaccari, storico volto dello sci, che, sentitasi messa da parte in redazione, ha fatto causa alla Rai per “demansionamento”.

Categoria Italia

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P. Belluno. Giustamente la gestione di 16 canali, porta a ripetere gli stessi programmi per mesi per poterli far funzionare. Forse li si vuole far imparare a memoria all’utente 

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