Il populismo economico di Di Battista e la storia che si ripresenta in scooter
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"La moneta è dei popoli, non delle banche private. Vogliamo sovranità monetaria” e "meno tasse con più spese"
Alessandro Di Battista in partenza per il tour "Costituzione coast to coast" (foto LaPresse)
di Luciano Capone | 01 Settembre 2016 ore 11:18
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Roma. Al termine di una tappa del suo tour in scooter lungo la penisola a difesa della Costituzione, il membro del direttorio grillino Alessandro Di Battista ha esposto una summa delle peggiori politiche economiche possibili: “Noi vogliamo sovranità – ha scritto sui social network il deputato del M5s – Vogliamo mangiare quel che produciamo e produrre quel che si mangia. Vogliamo sovranità alimentare. Non olio tunisino o arance marocchine. Vogliamo una nostra moneta stampata da una nostra banca. Perché la moneta è dei popoli, non delle banche private. Vogliamo sovranità monetaria”.
In poche frasi l’esponente di punta del M5s è riuscito a disintegrare qualche secolo di riflessione sul commercio internazionale e a presentare una politica monetaria e fiscale che ha ovunque prodotto disastri. Gli economisti sono divisi su tutto, ma se c’è qualcosa su cui sono d’accordo è sui benefici del libero scambio.
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Adam Smith aveva evidenziato l’insensatezza dell’autarchia e del protezionismo, spiegando che così come nessuna persona immagina di produrre da solo tutto ciò di cui ha bisogno, così nessuna nazione può pensare di diventare ricca isolandosi dal resto del mondo. Dopo Smith è stato un altro padre dell’economia moderna, David Ricardo, a spiegare i benefici degli scambi internazionali con la teoria dei vantaggi comparati: usando l’esempio del commercio tra Portogallo e Inghilterra, Ricardo mostrò perché nonostante il Portogallo producesse sia vino sia vestiti a costi più bassi dell’Inghilterra, a entrambi i paesi conveniva specializzarsi sui beni che sapevano produrre relativamente meglio e scambiarseli. E’ il motivo per cui il commercio è un gioco a somma positiva e per cui l’umanità è andata verso la divisione del lavoro, creando benessere, progresso scientifico e innovazione tecnologica. Ogni persona e ogni paese si specializza in ciò che sa fare meglio e lo scambia con gli altri. Pur nella sua evidenza, il ragionamento di Ricardo è controintuitivo, quindi di non immediata comprensione.
Circa venti anni fa il non ancora premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha dedicato un breve saggio, “La difficile idea di Ricardo”, alla fatica degli intellettuali ad afferrare ancora dopo 200 anni il concetto di vantaggio comparato, quindi è pienamente comprensibile che non ci riesca Di Battista. Ma la storia ci mostra diversi esempi concreti di società, dalla Tasmania migliaia di anni fa alla Corea del Nord oggi per citare i casi più estremi, che una volta rimaste isolate e senza la possibilità di scambiare e commerciare sono regredite: l’autarchia ha portato a un’involuzione sociale, economica e tecnologica. Alla decrescita insomma.
Nell’altro passo del suo intervento, quello sulla “moneta del popolo”, Di Battista espone i fondamenti del populismo economico. In genere la destra e i liberali propongono meno tasse e meno spese, mentre la sinistra e i socialisti più tasse e più spese.
I populisti invece vogliono meno tasse con più spese, e la differenza si stampa.
Il problema di questa concezione tipografica della produzione della ricchezza è che genera molti danni. Alla fine degli anni 80 l’economista tedesco del Mit Rudi Dornbusch, in un articolo con Sebastian Edwards, individuò proprio nell’idea che esistano pasti gratis e soluzioni che non scontentano nessuno il fondamento del “Populismo macroeconomico”. Secondo Dornbusch il populismo macroeconomico si concentra sulle politiche fiscali espansive e sulla redistribuzione del reddito a favore dei più poveri (dice qualcosa il reddito di cittadinanza?), senza alcuna preoccupazione per il deficit di bilancio, l’inflazione, i vincoli esterni e le reazioni degli agenti economici alle politiche anti mercato.
Ovviamente si tratta di un andazzo insostenibile che porta iperinflazione, recessione e instabilità politica: “Alla fine di ogni esperimento populista i salari reali sono più bassi di quanto non fossero all’inizio”.
Dornbusch e Edwards nel loro studio analizzavano le traiettorie economiche simili del Cile di Allende a inizio anni 70 e del Perù di García a metà anni 80 e in un libro successivo si sono occupati degli altri populismi sudamericani, dall’Argentina al Brasile, che hanno finito sempre col danneggiare l’economia e in particolare le fasce più deboli della società.
Una lettura molto attuale, sia per gli avvertimenti sui rischi del populismo economico, sia per i suggerimenti su una certa sudamericanizzazione della politica italiana. Ed è un segno dei tempi se nei giorni scorsi diversi giornali hanno accostato il tour costituzionale in scooter di Di Battista al viaggio in motocicletta per il Sud America di Che Guevara. E’ la storia che si presenta due volte: la prima volta come tragedia, la seconda in motorino.
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Commenti
giovanni cristaldi • 4 ore fa
Temo fortemente che il Che Guevara " de' noialtri" possa compiutamente capire l'ottimo articolo di Capone. Nel leggerlo mi è venuta in mente l'Albania di Henver Hoxha dove , a causa del totale isolamento dal resto del mondo voluto da quel terribile tiranno/dittatore, venivano applicati gli illuminati principi economici del nostro meraviglioso ragazzo della motocicletta.Sappiamo tutti (o quasi) come è andata a finire.