Finalmente saremo tutti colpevoli

Il giochino maledetto del “sospetto come anticamera della verità”, usato per anni dai professionisti dell’antimafia contro i propri nemici, non si è mai fermato. Ora lo rilancia, con un azzardo, l’ex pm Antonio Ingroia

Antonio Ingroia (foto LaPresse)

di Giuseppe Sottile | 16 Settembre 2016 ore 06:15 Foglio

Ricordate l’allegra teologia del “sospetto come anticamera della verità”? E’ stato per anni il giochino infamante con il quale ogni professionista dell’antimafia finiva per criminalizzare e quindi neutralizzare i propri nemici politici. Un maresciallo dei carabinieri aveva deciso di indagare sulle malefatte di un sindaco? Nessuna paura: il sindaco vestiva i panni dell’eroe, in lotta perenne contro le invisibili armate di Cosa nostra, e alla prima trasmissione televisiva lanciava a mezza bocca un’allusione ispida e velenosa verso quell’investigatore invasivo e inopportuno.

Generalmente il giochino funzionava, rapido e risolutivo. In un caso – il tragico caso del maresciallo Antonino Lombardo, accusato davanti alle telecamere di Michele Santoro di avere chiuso un occhio sulla latitanza di Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi – la gogna, montata a tavolino senza alcuna prova, si è conclusa addirittura con il suicidio del povero sottufficiale, colpevole solo di avere sollevato qualche perplessità sui protagonisti della luminosa “primavera” di Palermo, quella guidata dal ciuffo ribelle di Leoluca Orlando e dal gesuita Ennio Pintacuda.

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Parce sepulto, verrebbe da dire. Ma il guaio è che il giochino maledetto non si è mai fermato.

E per farvi un’idea, guardate un po’ che cosa è riuscito a inventarsi un magistrato – grazie a Dio in disarmo – per mascariare con l’arma impropria del sospetto una persona dabbene che, per ragioni d’ufficio, poteva anche intaccare la sua carriera e incrinare il suo prestigio. Il magistrato in disarmo è una ex star del circo mediatico-giudiziario. E’ quell’Antonio Ingroia che ha conosciuto a Palermo, da pubblico ministero, la durezza e l’ebbrezza della più implacabile e appariscente lotta alla mafia. Grazie alla sua indiscussa professionalità, ma grazie anche ai suoi strettissimi rapporti con giornali e giornalisti votati alla redenzione dell’Italia, il dottore Ingroia poteva consentirsi, dentro e fuori la procura, di dire e fare tutto ciò che riteneva necessario pur di riportare boss e picciotti, reprobi e  malacarne dentro i confini della legalità.

Gli strumenti certamente non gli mancavano. Il codice di procedura penale gli metteva a disposizione una varietà infinita di atti con i quali inchiodare alla croce del sospetto un cittadino in odore di mafia, o in odore di collusione, o in odore di corruzione o in odore di chissà quale altra nefandezza configurata dalla legge come reato. Sempre in ossequio, va da sé, all’obbligatorietà dell’azione penale. Tanto per gradire, la danza poteva cominciare con l’apertura di un fascicolo – il cosiddetto modello 45 – dove l’ufficio dell’accusa convoglia le carte, anche una lettera anonima o un ritaglio di giornale, relative a qualcosa che puzza di bruciato. Esempio: è crollato un ponte e non sappiamo ancora se dietro c’è la malasorte o la colpa di un disonesto costruttore.

Oppure poteva avvalersi del modello 21 dove vengono iscritti i nomi delle persone che potrebbero rientrare in quella indagine. Persone alle quali – ricordate il caso di Paola Muraro, tormentato assessore di Virginia Raggi, sindaco di Roma – va spedita, qualora l’avvocato la richieda, una comunicazione in base all’articolo 335. Oppure – ovviamente nel caso in cui siano già apparse le prime responsabilità – poteva spedire l’implacabile “avviso di garanzia”, un atto pubblico con il quale il destinatario apprende ufficialmente di essere stato iscritto nel registro degli indagati e messo perciò nelle condizioni di potersi difendere. Un’arma a doppio taglio, come sappiamo bene. Perché con l’avviso di garanzia il cittadino finito sotto inchiesta viene consegnato all’opinione pubblica e diventa di fatto un soggetto sul quale può sputacchiare chiunque: dal giornalista all’opinionista, dall’uomo politico all’ospite del talk-show.

“Questo non è un paese per innocenti”, s’intitola l’ultimo editoriale di Panorama, da ieri in edicola. E chi può dargli torto? Se si sommano i sospetti che le procure e i giornali amici delle procure riescono a macinare in un solo giorno, tra modello 45 e modello 21, tra articolo 335 e avviso di garanzia, chi riuscirà mai a farla franca? Avete visto quel che è successo al Campidoglio. Su una manciata di nomi scelti dalla Raggi come assessori, due sono risultati già colpiti da provvedimenti giudiziari: Muraro e De Dominicis.

Categoria Italia

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