Dunque esiste la giustizia a orologeria
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L’interferenza dei pm nel processo politico non è paranoia garantista, è una realtà effettuale che richiederebbe meno atteggiamenti moraleggianti e più strumenti di controllo. La lezione che arriva all’Italia dal caso Clinton-Comey
Il direttore dell'Fbi James B. Comey (foto LaPresse)
di Giuliano Ferrara | 02 Novembre 2016 ore 06:18
Allora esiste la giustizia a orologeria, non era una paranoia di noi craxiani, noi berlusconiani negli anni duri della gogna e dell’interferenza dei pm nel processo politico.
Come vogliamo chiamarla, all’americana, clockwork justice? Fate voi. Fatto sta che il capo dell’Fbi, James B. Comey, ha fatto qualcosa che lo staff della Clinton e Hillary stessa giudicano deeply troubling, molto inquietante, a undici giorni dall’elezione presidenziale. Comey come si sa ha scritto al Congresso e dunque all’intera opinione pubblica elettorale, a elezioni già in corso e alla vigilia della tornata decisiva di martedì 8 novembre, che c’è nuovo materiale “pertinente”, nato da un’indagine parallela riguardante un computer usato dalla sua storica assistente Huma Abedin, all’affaire delle email dell’ex segretario di stato Clinton. Il capo dell’Fbi riconosce di non saperne nulla di preciso, non sa se ci siano elementi significativi nel nuovo materiale, non sa se siano copie di lettere già conosciute e sulle quali l’inchiesta di un anno degli agenti investigativi era stata da lui dichiarata chiusa senza addebiti penali per la candidata democratica. Si è scoperto che non aveva nemmeno l’autorizzazione a procedere, cioè a esaminare il materiale, nel momento in cui ha fatto la rivelazione “esplosiva”, che potrebbe costare alla Clinton la disfatta a favore di Trump e che mette in grave imbarazzo l’elettorato americano (ora ce l’ha). Il dipartimento della giustizia, di cui l’Fbi è parte, lo aveva sconsigliato di interferire in quel modo. Un repubblicano autorevole ha formalmente denunciato (un repubblicano, dico) la violazione della legge federale del 1939 che prescrive di non condizionare abusivamente, senza elementi di urgenza e di evidenza investigativa assoluta, l’esito delle elezioni, si tratti di un senatore, di un deputato o del presidente degli Stati Uniti. E Comey non ha detto al Congresso: abbiamo beccato Hillary in qualcosa di penalmente rilevante, tutt’altro, ha solo introdotto il sospetto con una procedura irrituale che ora getta il sospetto sull’Fbi, e lo ha fatto nel corso di una campagna all’ultimo sangue, aspramente personalizzata da Trump, in cui Hillary è sottoposta a un inaudito linciaggio da caccia alla strega all’insegna di slogan cantati in ogni raduno trumpista e ribattuti dallo stesso candidato a lei avverso, slogan che la vogliono in galera, impiccata, sparata addirittura, questa bitch, questa stronza, questa puttana che si permette di correre per la presidenza dall’alto della sua corruttela.
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La differenza con l’Italia dei nostri vent’anni e più è notevole in ogni senso.
Non solo perché negli Stati Uniti non funziona il tradimento dei chierici rispetto allo stato di diritto, e molte voci del campo repubblicano denunciano il malfatto in nome di una nozione bipartisan della legalità in una repubblica bene ordinata, cosa che da noi è successa le rare volte computabili sulle dita di una mano sola. Tutto è diverso. Negli Stati Uniti non esiste lo schermo dell’obbligatorietà dell’azione penale, le agenzie investigative lavorano nel silenzio e rendono pubblici i risultati delle investigazioni solo al momento opportuno, quando si deve avviare un processo penale credibile che sono altri a decidere se perseguire o no. E questi altri non sono funzionari politicizzati e ideologizzati che lavorano dietro lo schermo dell’autonomia della magistratura selezionata per concorso ma impegnata a indagare e giudicare all’interno di una stessa carriera gestita come si dice in nome del popolo italiano. Il popolo lì si sceglie i magistrati inquirenti direttamente e i giudici indirettamente attraverso la nomina di chi è responsabile politicamente del governo del paese per decisione popolare, il presidente. Non c’è il mercato delle carte e delle intercettazioni e il sistema dei media interviene con le sue campagne solo in casi eccezionali che riguardano la salute dello stato, e sempre badando a certificare con scrupolo le ragioni di chi si difende, di chi nega. Non esiste lo strumento di tortura della carcerazione preventiva, sbattere la gente in galera per farla parlare, esistono casomai i testimoni che negoziano da uomini e donne libere una loro posizione giuridica di accusatori o di delatori istituzionali (i whistleblowers) di cui si rendono responsabili pienamente di fronte al diritto. La giustizia americana non è un circo di faziosi che fanno i loro numeri acrobatici e vogliono esercitare una supplenza alla politica istituzionale fatta dagli eletti del popolo, non se ne parla nemmeno.
Eppure, ecco, alla fine si vede che perfino un sistema di tal fatta non mette al riparo dal sospetto su un superpoliziotto repubblicano, che ha collaborato con le amministrazioni repubblicane, d’accordo, è però considerato integro e non fazioso e per questo, in base alle sue capacità, è stato scelto dal democratico Obama per dirigere la principale e decisiva agenzia investigativa del paese
. Chi getta la bomba del sospetto senza prove e senza indizi nella competizione si espone a sua volta a un sospetto di giustizia a orologeria, magari per irresponsabilità o per aver dato un’occhiata ai sondaggi. Comey si difende con l’argomento di aver giurato in audizione al Congresso e di aver dichiarato chiusa un’inchiesta che la scoperta di nuove carte potrebbe (potrebbe, sottolineo) riaprire. Ma è chiaro che sarebbe responsabile di un cover up, cioè di un atteggiamento di corrività e di partigianeria nell’ostruire una procedura di giustizia, se avesse trovato qualcosa di rilevante agli effetti della riapertura dell’indagine a carico della Clinton in tema di sicurezza nazionale e non lo avesse detto. Non è questo il caso, come abbiamo ricordato prima.
E allora? Allora i piccoli e falsi moralisti che hanno fondato le loro fortune politiche sull’uso politico della giustizia, qui in Italia, hanno materia su cui riflettere.
Nessun sistema è immune da difetti, quello italiano nei difetti è immerso costitutivamente, quello americano si era in genere tenuto alla larga dalle conseguenze di atti politici, salvo la lunga stagione del superpoliziotto Edgar J. Hoover, non proprio uno stinco di santo, com’è noto. Eppure la giustizia a orologeria o il suo sospetto esiste, non è una paranoia di noi garantisti, è una realtà effettuale della cosa che richiederebbe meno atteggiamenti moraleggianti e più incisivi strumenti di controllo. Il primo dei quali è quella cultura istituzionale che, salvo la ovvia e delirante propaganda trumpista, coinvolge molti settori repubblicani nel denunciarla, all’unisono con i democratici e con osservatori imparziali, terzisti veri. Circostanza che nella lunga stagione della guerra tra politica e giustizia, in Italia, non si è mai seriamente verificata.