Regeni non può bloccare tutto

Bisogna guardare avanti e non fare come con Ustica e Bologna. Riprendere relazioni diplomatiche con l’Egitto

 di Domenico Cacopardo, 5.8.2017 da www.italiaoggi.it

Nel Paese dei più vieti conformismi (quello berlusconiano - invero il meno cogente - quello pdino, quello 5Stelle - il più cretino - quello della sinistra che più sinistra non si può, quello trasversale dell'antimafia, spesso così estremo da sfiorare la complicità mafiosa), parlare di Egitto e di Regeni (come di quello scombinato di Giuliani, cui Fausto Bertinotti dedicò una sala di Montecitorio, dimentico, lui e gli altri, delle parole pronunciate a caldo dal padre - che lo definì più o meno come un disadattato che aveva scelto di vivere per strada con uno o più cani) risulta difficile e, soprattutto, impopolare.

Tuttavia, mentre un paio di battelli minori della Marina Italiana (l'idea che due battelli minori «non compromettano» la immagine pacifista e rinunciataria appartiene all'abusata ipocrisia che ha nutrito generazioni politiche democristiane - di sinistra, cioè di quella sinistra economica nutrita dai soldi delle partecipazioni statali e dalle parole di don Dossetti - e comuniste –pacifisti a Roma, bellicosi a Mosca-) incrociano nei dintorni di Tripoli, il colonnello Khalifa Belqasim Haftar, capo militare di Bengasi e - in parte - di Tobruk, sostenuto da Egitto, Francia e Gran Bretagna, minaccia di bombardarli.

Il rischio è remoto, anche se Haftar dispone di qualche aereo gheddafiano, rimesso in funzione da tecnici - come dire - alleati, nel senso di frances

e inglesi.

Si tratta di velivoli facilmente identificabili dai radar e abbattibili da quale missile antiaereo.

La questione, però, è altra: un attacco, qualsiasi sia il risultato, è un attacco alla Marina militare e, quindi, all'Italia. Nei codici comportamentali cui sono abituati in Medio Oriente, significa ritorsione.

Se non ci fossero, da Tangeri ad Aleppo, milioni di arabi (che conoscono solo il linguaggio delle armi e che godono dello sgozzamento di innocenti cristiani catturati dai terroristi dell'Isis) riderebbero di noi, classificandoci come i «soliti italiani» e non darebbero nemmeno il peso modesto che oggi, in virtù degli sforzi di Marco Minniti e dei soldi dell'Eni (a proposito, come mai una procura della Repubblica non ha aperto un fascicolo per accertare se e quanto paghi l'Ente nazionale ai vari capi tribù libici? Sarebbe un bel contributo alla chiusura definitiva di ogni attività economica italiana in terra d'Africa), ci attribuiscono.

Alle corte! L'interesse nazionale ci impone di tornare al Cairo, di formulare una dichiarazione sul caso Regeni e di riprendere a tessere una rete di rapporti diplomatici che ci aiuti a ricomporre il «puzzle» libico e a compiere passi innanzi nella pacificazione generale di questo cruciale scacchiere.

Occorre andare avanti, sapendo che, quanto meno, il giovane Regeni è stato un imprudente (dato che non ha valutato la differente concezione della parola libertà tra Roma e il Cairo); che relazioni diplomatiche «normali» sono nell'interesse del Paese e della medesima voglia di verità della famiglia Regeni; che la nazioni non possono fermarsi per casi singoli, ancorché eclatanti.

Che, infine, non si può dare spago a tutti coloro che, cinicamente, da sempre speculano su questo caso, come sugli altri, a partire da Ustica per finire a Bologna.

Andiamo avanti e lavoriamo, come sempre, per la pace: non quella degli incapaci e dei vili, ma quella giusta e forte di chi conosce i propri limiti e i propri interessi.

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