Perché la sinistra dovrebbe ammettere che Craxi aveva ragione

Il progetto comunista di Togliatti, Berlinguer e D’Alema è stato sconfitto. Da 25 anni ormai tutti si dichiarano di fede socialdemocratica. Dimenticando il passato. E che il leader Psi nonostante gli errori, ci aveva visto giusto.

MARIO MARGIOCCO, 30.9.2017 da www.lettera43.it

L'insostenibile opportunismo dei dalemiani a intermittenza

L’Italia è l’unico Paese democratico occidentale che nell’ultimo secolo ha avuto un ex capo del governo morto in esilio, nel 2000, perché se fosse tornato in patria sarebbe stato subito arrestato per finanziamenti illeciti personalmente ricevuti. Molti ancori oggi al solo sentire il nome Bettino Craxi protestano e ne fanno il perno della malattia italiana. Altri, senza assolverlo, hanno un giudizio diverso. I non molti fedeli lo difendono.

LA RIABILITAZIONE DALEMIANA. A 17 anni dalla morte in Tunisia, la riabilitazione politica di Craxi ha fatto nei giorni scorsi un ulteriore passo avanti. Craxi era uomo di sinistra, ha dichiarato Massimo D'Alema, uno dei suoi più irriducibili avversari. Accanto a Berlinguer, e successivamente, D’Alema fece il possibile e l’impossibile per combattere Craxi. Ora definisce senza ambiguità Craxi uomo di sinistra, cosa, aggiunge, che Matteo Renzi non è (Corriere della Sera, 27 settembre). Un riconoscimento alla memoria (leggi l'editoriale di Peppino Caldarola e la risposta di Stefania Craxi).

SOCIALDEMOCRAZIA CONTRO COMUNISMO. Il rapporto fra socialisti e comunisti è stato centrale nella vicenda politica di Craxi, forse più della stessa attività di governo. Craxi vide per tempo che l’ideologia comunista e il sistema che la incarnava avevano problemi crescenti. Non andrebbe mai dimenticato che, come ricordava lo storico Piero Melograni, l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, rappresentava nel 1913 il 17% del Pil mondiale mentre nel 1992 era scesa all’8%, Urss inclusa. Evidenti le enormi contraddizioni fa la “liberazione dell’uomo” e la negazione di fatto di libertà fondamentali. Craxi era convinto di marciare con la Storia, che la Storia e lui medesimo avrebbero sconfitto sullo scenario italiano il Pci vittima del declino del comunismo europeo, ed era convinto che la socialdemocrazia fosse enormemente superiore al comunismo.

Il Pci di Togliatti, Longo e Berlinguer era orgogliosamente comunista e tale voleva rimanere, adattando le sue strategie alla realtà occidentale (o quasi) dell’Italia

Questi termini sono sempre difficili da affermare in Italia perché, dopo decenni di orgogliosa auto definizione della identità comunista, a un certo punto a partire dagli Anni 70 incominciò a radicarsi l’idea che il Pci con la sua «via italiana al socialismo» fosse socialdemocratico da sempre. La Svolta di Salerno sarebbe stato il punto di partenza. Migliaia di scelte, documenti, discorsi, prese di posizione politiche e la stessa linea Berlinguer sconfessano questa interpretazione. Il Pci di Togliatti, Longo e Berlinguer era orgogliosamente comunista e tale voleva rimanere, adattando le sue strategie alla realtà occidentale (o quasi) dell’Italia. Ma la tesi di un Pci socialdemocratico è dura a morire anche perché il Pci finita l'Urss, sbarcò nella socialdemocrazia. Vale per singoli personaggi e piccoli gruppi. Per il Pci nel suo insieme è una favola.

IL VANGELO SOCIALISTA. Un simbolo del contrasto fra socialdemocrazia craxiana e comunismo berlingueriano è l’articolo Il Vangelo socialista uscito su l’Espresso a fine agosto 1978 a firma Craxi. Era la riscrittura di un testo preparato da Luciano Pellicani per un volume tedesco su Willy Brandt, una esaltazione della socialdemocrazia come unica forza capace di superare, emendandolo, il capitalismo, e una condanna del comunismo «religione travestita da scienza» e «totalitaria». Pierre-Joseph Proudhon era l’eroe dell’articolo e Lenin il colpevole. Berlinguer rispose giorni dopo al festival de l’Unità di Genova, e Giorgio Napolitano ne ha dato nella sua Autobiografia politica (Laterza, 2008) una sintesi critica: « …Netto, insistente, ripetuto fu il suo (di Berlinguer, ndr) richiamo polemico alla pur complessa vicenda storica della socialdemocrazia. L’argomento ideologico, su una linea di anacronistica ortodossia comunista, fu quello che la socialdemocrazia aveva perseguito e conseguito i suoi obiettivi sulla base del sistema capitalistico, all’interno della logica del capitalismo».

LA «TRAGEDIA» DELLA FINE DELL'URSS. D’Alema, e chi lo conosce bene lo conferma, è cresciuto togliattiano perfetto, convinto della infinita superiorità del "metodo”, così come Togliatti lo spiegava ai giovani (il giovanissimo D’Alema ha fatto a tempo a sentirlo), assicurando che grazie a esso e all’evidente acuirsi delle lotte sociali e dello sfruttamento a Occidente e all’evidente continuo miglioramento delle condizioni di vita sotto il comunismo realizzato (o realizzando), la vittoria non potesse che essere la loro. Stava succedendo il contrario. D’Alema, dopo l’89-91, parlò più volte della «grande tragedia» della fine del comunismo. Ma non ha mai chiarito se consistesse nell’averlo perso, il comunismo, o nell’averlo avuto. Più probabile la prima opzione.

LO SCONFITTO TOGLIATTI. Da anni chi si considera erede di Berlinguer cerca di portarne avanti il messaggio, impresa difficile perché questo aveva fra i pilastri fondanti l’orgoglio comunista, e non è facile quando si sostiene che anche la socialdemocrazia in fondo ha le sue ragioni. Biagio De Giovanni, a suo tempo intellettuale di punta e parlamentare Pci, Pds e Ds, traeva a chiare lettere le conclusioni nel 2004. Togliatti (e quindi sostanzialmente Berlinguer) è uno sconfitto. Sono state battute la sua «visione strategica», la sua «previsione storica» di una vittoria finale dell’Urss, ed è stata persa la «lotta mortale» ingaggiata con la socialdemocrazia.

.Faceva una certa impressione vedere schierati vicini Achille Occhetto, Bettino Craxi e Piero Fassino il 16 giugno del 1989 per i funerali di Stato postumi di Imre Nagy, il primo ministro comunista e capo della rivolta ungherese del 1956, impiccato nel '58. «Nel '56 Togliatti sbagliò a schierarsi con i sovietici», disse quel giorno Occhetto. Togliatti come gli altri leader comunisi fu consultato più tardi sull’esecuzione di Nagy e votò sì, chiedendo venisse rinviata di qualche settimana perché a fine maggio del '58 si votava in Italia. Intervistato nel 1984 da Giovanni Minoli, alla domanda su chi fosse il leader europeo che più ammirava, Enrico Berlinguer rispose: «János Kádár». Aveva abbastanza liberalizzato l’economia ungherese. Ma da capo del partito e dello Stato ungherese Kádár avallò nel 58 la decisione russa di giustiziare Nagy e altri patrioti.

CRAXI AVEVA RAGIONE.Craxi fu simile a un architetto con un buon progetto ma mediocri maestranze (il suo Psi), alle quali aggiungeva sregolatezze di suo. Lungo tutta la sua storia il socialismo italiano si è sempre portato dietro il caustico e famoso giudizio tracciato da Engels nel 1873 (circa) dopo i suoi viaggi in Italia e condiviso da Marx: «Una combriccola di spostati, il rifiuto della borghesia…avvocati senza clienti, medici senza ammalati e senza cognizione, studenti assidui al biliardo…giornalisti della piccola stampa, dalla fama più o meno dubbia. Borghesi decaduti, che altro non vedono nell’Internazionale che una carriera e una via di scampo». Su Critica Sociale del settembre-ottobre 1916 Claudio Treves faceva un ritrattino assai meno crudo e ingeneroso, ma non diversissimo, dei suoi socialisti. Berlinguer e D’Alema ebbero sagaci volenterose e abili maestranze, ma votate a un progetto sbagliato. E adesso, da 25 anni e passa, tutti sono socialdemocratici. Con qualche nostalgia. Sarebbe forse il momento di dire, e qualcuno di loro l’ha fatto, che a parte tutti gli errori, anche gravi, nella sinistra italiana al nocciolo Craxi aveva ragione.

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