Troppe forze guardano al passato

E non tengono conto che il mondo è del tutto cambiato

 di Domenico Cacopardo, 11.10.2017 da www.italiaoggi.it

Certo, il capitalismo ha vinto, sbaragliando in modo irreversibile il campo comunista. La data convenzionale è il 9 novembre 1989, giorno dell'apertura e demolizione del Muro di Berlino, ma la vera chiusura avviene il 19-21 agosto 1991, col fallimento del putsch messo in piedi dal gruppo dirigente del Pcus, capeggiato da Vladimir Krjukov, capo del Kgb, col sostegno di una frazione minoritaria dell'esercito. In quei giorni ero nella capitale russa e, debbo ammetterlo, se non mi fossi sintonizzato sulla Cnn, non mi sarei accorto di nulla. Come a Berlino, fu la gente della capitale e i soldati a spazzare via le speranze golpiste e a spingere Boris Eltsin a difendere la democrazia con un discorso pronunciato su un carro armato, simbolo vivente della fine di un impero.

Che il capitalismo abbia vinto non significa che non abbiano diritto di cittadinanza politica coloro che sono nostalgici del socialcomunismo, né coloro che, in modo più o meno consapevole, si battono contro questo sistema economico. A condizione, ovviamente, che i mezzi utilizzati siano legali, non la violenza in cui sono specialisti i disadattati dei centri sociali torinesi, assistiti dai disadattati Notav o dai soliti «stupidi idioti», impersonati, nella capitale sabauda, da un certo numero di grillini, con la sindaca Appendino che fa il pesce in barile, pur essendosi ormai messa sulla strada di adeguarsi al modello Raggi e conseguente irresponsabile sciocchezzaio.

Ciò che, in Italia, non è stato ancora adeguatamente compreso è che dopo il 1989, l'Europa s'è data -7 febbraio 1992- un trattato (Maastricht) che costituisce la prima statuizione dell'avvenuta vittoria del capitalismo. A esso hanno fatto seguito decine di decisioni e di trattati, di minore portata che, integrando la Costituzione italiana (e quelle delle altre nazioni europee), hanno dato vita a un «corpus» di norme che, tutt'insieme, rappresentano la reale costituzione materiale che regola la vita degli europei e di noi italiani in particolare. Il tutto non è mera espressione del capitalismo vincitore, ma delinea un sistema liberal-liberistico che ha fatto tanta strada da non consentire marce indietro, se non di tipo rivoluzionario. Certo ci sono eccezioni e sacche residue di statalismo in Francia e in Italia, ma l'impianto è proprio di natura liberista.

Gran parte della pubblicistica italiana non sembra accorgersi che viviamo, operiamo e guadagniamo in un sistema completamente diverso da quello in vigore nella Prima repubblica (fortemente influenzato dal socialismo reale e dalla confusa e confusionaria cosiddetta «dottrina sociale della Chiesa»), i cui pilastri sono sì la libera circolazione di capitali e lavoratori, ma il cui scopo è quello del recupero e del rilancio della competitività. Obbedendo così all'esigenza d'essere protagonisti in un mercato globale.

Di questa competitività, è colonna portante la formazione scolastica, universitaria e professionale, rispetto alla quale noi italiani andiamo controcorrente, vincolati come siamo alla tutela della lobby dei professori a scapito delle esigenze dei giovani. Il che determina l'incapacità delle giovani generazioni di entrare a testa alta nel mercato del lavoro, trasformando le loro potenzialità in ricchezza nazionale.

Gran parte delle proposizioni dei partiti italiani testimoniano una totale ignoranza dei vincoli che abbiamo, negli anni, liberamente accettato: spesso, spessissimo, anche in gente come Renzi, il distratto oblio delle norme sostanziali che regolano l'economia e la società europea dà la stura ad affermazioni lontane dalla realtà e dalla praticabilità.

Per non parlare di Mdp (Movimento democratico e progressista), per il quale la parola «progressista» vuol richiamare gli elementi di socialismo reale di cui i suoi vertici sono eredi.

Invece di trarre partito dall'opportunità rappresentata dal sistema di cui siamo partecipi, alcuni partiti e i sindacati ritengono di poter ripartire dall'inizio in una specie di gioco dell'oca infinito.

Esemplare è la questione Ilva, ormai di proprietà del gruppo ArcelorMittal. Qui un governo, succube del passato, ha privatizzato con vincoli contraddittori con le necessità del mercato. Talché, oggi, nella «hora de la verdad» la prospettiva torna a essere l'abbandono della sfida da parte di ArcelorMittal: evento di una gravità irreparabile non tanto e non solo per i lavoratori, illusi di poter condizionare la nuova proprietà, quanto per l'Italia in via di autoestromissione da un settore produttivo il cui semplice nome, «acciaio», evoca un presupposto irrinunciabile di ogni sistema produttivo moderno.

Prima o dopo ce ne faremo una ragione: non solo ha vinto il capitalismo. Ma ha anche vinto il liberal-liberismo, strumento di lotta e di possibili vittorie nel mercato globale, nonostante le effimere opposizioni di destre (Trump) e di sinistre.

www.cacopardo.it

© Riproduzione riservata

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata