Il nuovo bipolarismo? Grillo contro Berlusconi (e per la sinistra è tragedia greca)

Fino a ieri la sfida principale era Cinquestelle contro Pd, con il centrodestra in posizione di inseguitore. Da oggi lo scontro si sposta sull'asse Cinquestelle/Centrodestra. Ma il declino della sinistra non è da attribuire al solo Renzi

di Flavia Perina 7.11 2017 - 07:50 da www.linkiesta.it

Cala il sipario sulle elezioni siciliane, saltano molti schemi, finisce la stagione della sfida diretta Pd/M5S e il mito della sinistra come unica e vera “diga anti-grillina”. La diga è da cercare da un'altra parte, tantoché un'alta quota di elettori democratici (circa l'8 per cento) ha sbarrato sulla scheda il nome del grillino Giancarlo Cancelleri, non del democratico Fabrizio Micari dimostrando una inaspettata confidenza con quello che doveva essere il “nemico principale” e lasciando a Nello Musumeci il ruolo di argine effettivo all'avanzata Cinque Stelle. E' solo Sicilia, è solo anomalia territoriale, o è anche Italia, tendenza nazionale? L'interrogativo adesso è questo, e la risposta non è scontata.

Il caso della vittoria di Musumeci, per molti versi, fa storia a sé a causa della personalità del candidato, un uomo assai libero, che ha attraversato tanti centrodestra senza mai prendere la tessera di nessuno, titolare di un largo consenso personale proprio per la sua reputazione di indipendenza e attitudine legalitaria: ma dove si è mai visto, al Sud, un candidato che invece di star zitto e incassare il traino dei capibastone delle preferenze invita a non votarli? Dove uno che intitola il suo personale schieramento (“Sarà Bellissima”) a una frase di Paolo Borsellino e riesce a tirarsi dietro il partito di quelli come Miccichè, che per non citare Borsellino avrebbero cambiato nome all'aeroporto di Palermo?

Fino a ieri la sfida principale era M5S/Pd, con il centrodestra in posizione di inseguitore terzo, comprimario. Da oggi lo scontro si sposta sull'asse M5S/Centrodestra

E però la vittoria della destra e la frana della sinistra siciliana arrivano dopo molte altre competizioni che danno alla faccenda un sapore meno “local”. Arrivano dopo Genova, dopo la Liguria, e soprattutto dopo Torino e Roma, e rappresentano un ulteriore upgrade del tripolarismo italiano: fino a ieri la sfida principale era M5S/Pd, con il centrodestra in posizione di inseguitore terzo, comprimario. Da oggi lo scontro si sposta sull'asse M5S/Centrodestra (vedi Ostia, dove la sinistra nemmeno è entrata in gioco e i suoi elettori dovranno scegliere ai ballottaggi fra la candidata grillina e quella di Fratelli d'Italia).

C'è una differenza grande tra i due schemi, soprattutto nella prospettiva delle politiche e dell'insediamento (finora dato per scontato) di una Grosse Coalition post-elettorale. Berlusconi avrebbe baciato volentieri la pantofola di Renzi in nome del ritorno al governo, ma la scena opposta – il Pd che passa sotto le forche caudine di un ri-vincente Cavaliere – è francamente poco immaginabile. E poi, che cosa farà l'elettorato del Pd se dovesse decidere – come è successo in Sicilia – che il vero nemico resta il Cavaliere e che il “voto utile” per fermarlo è quello dato a Grillo? Il voto disgiunto alle Politiche non c'è, e però magari, turandosi il naso...

Così la Sicilia riapre molti giochi, interni ed esterni, e contiene in fondo una lezione per tutti. Ai Cinque Stelle dice che rifiutando ogni forma di alleanza saranno opposizione per sempre (ma forse è quel che vogliono). Alla destra racconta che la classe dirigente, i nomi, le biografie dei singoli, contano eccome: va messa in archivio la vecchia idea che i voti li porta solo il Cavaliere e tutto il resto sia intercambiabile, e il prossimo casting andrà fatto tenendo conto del fattore “reputazione”, non solo della bella presenza o delle relazioni amicali.

Quanto alla sinistra, sarebbe ingeneroso dimenticare che il caso-Italia è solo la coda di un arretramento continentale che ha già marginalizzato i socialisti francesi, britannici, spagnoli, tedeschi (per non parlare dei greci del Pasok, letteralmente scomparsi).

L'avvitarsi del dibattito sul Renzi/non Renzi è un atto di straordinaria miopia in un contesto che appare assai più largo e complicato: certo, illudersi di dominarlo con la retorica della rottamazione è stato un errore, ma le radici del disagio e dell'abbandono degli elettorati vanno cercate in qualcosa che viene “prima” delle scelte dell'attuale classe dirigente. E' la fine dei grandi partiti di massa, la sparizione del rapporto biunivoco che gli individui e i gruppi avevano con la politica, il tramonto della sezione, della chiesa, del circolo, persino dell'osteria, ed ovvio che punisca più il Pd - l'erede diretto dei due partiti-massa italiani, Dc e Pci – che chiunque altro.

Vent'anni fa Peppone e Don Camillo insieme rappresentavano i due terzi del Paese e con una lista comune si sarebbero presi con facilità il 70 per cento dei voti perché c'era (oltre molte altre cose) la “massa elettorale” in cui pescare. Oggi, con quasi il 60 per cento degli aventi diritto che nemmeno va ai seggi, non c'è lo spazio fisico per allargare le quote di rappresentanza, e magari questo è l'ultimo mito da sfatare: l'idea, cioè, che l'astensionismo sia un bene per i partiti tradizionali, li avvantaggi, limiti il successo dei “nuovi” come il M5S, insomma la convinzione che gli assetti di potere si controllino meglio quando va a votare poca gente. “Meno siamo meglio stiamo” non sembra funzionare, non nella democrazia italiana.

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