Governo. Non è il momento delle intese

Ora Di Maio e Salvini stanno prendendosi le misure

di Domenico Cacopardo 6.4.2018 www.italiaoggi.it

Un tempo, nel nostro Paese, esistevano i velodromi: si trattava di stadi destinati alle corse (su pista) delle biciclette. Ce n'erano due: uno a Roma, costruito per le Olimpiadi del '60 (e subito accantonato); l'altro a Milano (il Vigorelli) l'unico effettivamente funzionante e degno di quello di Parigi. Erano molto frequentati dagli amanti del genere, soprattutto per le gare di velocità. Abbiamo avuto, contemporaneamente, due grandi campioni, Antonio Maspes e Sante Gaiardoni (nome omen). Per qualche anno, tennero banco in tutto il mondo, alternandosi al primo posto. Il segreto di questo genere di sport si chiama sur place ed è la tecnica per la quale i concorrenti in gara stanno fermi sulle ruote in attesa del momento propizio per lo scatto. Il sur place poteva durare molto a lungo, in modo da snervare gli atleti e costringere i più deboli a cedere.

Questa lunga introduzione mi serve per descrivere la nostra situazione politica, nella quale (è ormai evidente) sono rimasti in corsa due soli concorrenti per la conquista del premio «governo». E già questa considerazione dimostra come la fase che attraversiamo sia una degenerazione del sistema, quale è stato voluto dalla maggioranza degli elettori che bocciò il 4 dicembre del 2016 il referendum sulla riforma costituzionale. Poiché il tempo non passa invano, questo ritorno al proporzionale, con gente che non l'ha mai conosciuto e praticato e che non ha alcuna consapevolezza delle responsabilità che competono ai partiti, sta assumendo aspetti sempre più grotteschi. Ora, la conclusione del primo giro di consultazioni presidenziali ci consegna due elementi. Il primo è costituito dalla scelta di Mattarella di porre sul tappeto degli aspiranti premier il presupposto irrinunciabile di questa legislatura e delle prossime: il rispetto degli impegni internazionali dell'Italia e, quindi, dei vincoli posti dalla nostra presenza nell'Unione europea. Un limite che i dioscuri Di Maio e Salvini considerano indigesto, alla luce delle irresponsabili promesse elettorali formulate agli italiani.

Il secondo elemento è una conferma, caso mai ce ne fosse stata necessità: oltre Lega e 5Stelle non si va. I discorsi tra i due partiti sono andati avanti e ce n'è stata ampia testimonianza nelle elezioni degli organi dirigenti di Camera e Senato. Ora si tratta di passare ai programmi, alla partecipazione al governo (quanti e quali dicasteri) e, infine, ai nomi. La strada da percorrere è complessa: Di Maio deve affrontare un tornante estremamente difficile, superando i no e le affermazioni demagogiche per un programma realistico e, soprattutto, concordato. E con la possibilissima, ingombrante presenza di Forza Italia. Salvini ha, prima di tutto, il problema di non rompere con Forza Italia (i Fratelli d'Italia non sono un problema). E non perché ci sia un ostacolo politico (l'accordo di coalizione si può rompere domani), ma perché solo giocando sul tavolo e per il tavolo del centro-destra potrà battere i pugni sul tavolo e ottenere un risultato soddisfacente, non tanto sul programma (che è più facile da definire per Lega e 5Stelle) quanto per la composizione del governo. Per questa ragione, questo non è il momento delle intese, è il momento delle prese di distanza e delle puntualizzazioni. Infatti, rispetto ai giorni idilliaci delle elezioni dei presidenti e degli uffici di presidenza di Camera e Senato, all'apparenza si sono compiuti vari passi indietro.

Tattica, solo tattica (e c'è da chiedersi chi sia l'ispiratore di Luigi Di Maio che sta tenendo bene il campo giocando la carta, fasulla, ma non per i suoi fan, dell'investitura popolare), in vista di un secondo e, possibilmente, di un terzo giro. Infatti, i 5stelle non hanno interesse a chiudere rapidamente: hanno interesse a fare il sur place, a snervare Parlamento sino a far temere lo scioglimento e nuove elezioni, a logorare il centro-destra, incidendo con passi avanti e passi indietro, sulla solidità della coalizione. E ad aspettare la tornata elettorale di fine aprile, in modo che l'elettorato protestatario di cui sono i rappresentanti non sia «turbato» da un accordo di governo, nel quale le richieste dei grillini non potranno non essere diluite.

E questo è l'esempio più lampante di come i nuovi protagonisti siano cinicamente e irresponsabilmente capaci di anteporre agli interessi del Paese i propri interessi di partito, di conventicola di singole persone. Sulla trattativa di governo, peserà un macigno: si tratta delle esigenze di finanza pubblica, già stabilite in legge e inopinatamente aggravate dall'inserimento dei miliardi spesi nel salvataggio delle banche, per riportare i conti all'interno della tollerabilità comunitaria.

Insomma, l'eredità di Renzi (dal borsellino facile) e di Gentiloni (cauto gestore dell'esistente e continuatore della politica del predecessore, che tanti risultati positivi ha comunque ottenuto) comprende un conto salato per la finanza pubblica. E pesa la pretesa premiership di Di Maio: le parole in politica contano e sanno vendicarsi. Talché, se otterrà l'incarico desiderato, il giovanotto dovrà cedere, e molto, sui dicasteri: il malcontento è in agguato e le sue conseguenze non sono ora valutabili.

Per queste ragioni, crescono le possibilità di fallimento delle trattative in corso e, quindi, di nuove elezioni. E, in tal caso, il punto cruciale è già chiaramente indicato: Mattarella subirà le pressioni, soprattutto, grilline per l'inserimento nella legge elettorale di un premio di maggioranza? Sarebbe bello se il presidente imponesse uno scambio: sì al premio di maggioranza a condizione che tutti i partiti adottino uno statuto democratico. Le speranze non costano nulla.

Domenico Cacopardo www.cacopardo.it

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