Governo. Ora è Di Maio che implora l'aiuto

Ad un Pd che è sempre più diviso e in stato confusionale

di Gianfranco Morra, 10.4.2018 www.italiaoggi.it

La storia si ripete, anche se mai in termini identici: dal 2013 al 2018 i giocatori si sono scambiate le parti. Nel 2013 Bersani chiese al M5S di sostenere il suo governo, ma i grillini gridarono: «Mai!»; cinque anni dopo è Di Maio che lo chiede al Pd, ma la risposta per ora è negativa.

Ricordiamo tutti quel 2013, quando le elezioni sconvolsero gli equilibri politici. Il Pd vinse di misura sul centrodestra, ebbe però la maggioranza solo alla Camera. Ma la novità più sconvolgente fu il M5S, nato dal niente, formato (si diceva) di ignoranti e vaffanculisti, sgrammaticati e fanatici, che superò il Pd e divenne il primo partito a Montecitorio (25,56 %).

Bersani, incaricato da Napolitano di fare un sondaggio, chiese ai grillini un incontro, che fu visto in streaming da tutti. Ai 5 Stelle non domandò di entrare in un governo del Pd, cosa che essi escludevano a priori, ma di avere i loro voti esterni. Non se ne fece niente. Oggi il gioco delle parti è capovolto. Nessuno ha vinto le elezioni del 2018 e manca una maggioranza di governo. Il partito di gran lunga primo è il M5S (32,66). Ma esso deve cercare degli alleati per raggiungere una maggioranza di governo.

Per ora Di Maio considera la Lega e il Pd come i «due forni» di andreottiana memoria. Ma con la Lega non gli è tanto facile andare d'accordo, perché Salvini farebbe partecipare tutta la coalizione di centrodestra, Berlusconi compreso. E forse pretenderebbe anche la premiership. Perciò Di Maio, in una lunga intervista a Repubblica di sabato scorso, ha chiesto la «mano» del Pd. Senza specificare se come alleato o come semplice sostenitore esterno del governo. Anche se si può supporre che l'ipotesi valida sia la prima, visto che si è riferito al governo di Germania tra democristiani e socialisti, e ha parlato di un previo programma scritto e firmato dalle parti.

Naturalmente il Pd, grande sconfitto nel voto anche se secondo partito del parlamento, teme di divenire una ruota di scorta del M5S, tanto che ha risposto, se non sempre col rifiuto, almeno con la diffidenza. Anche se le discussioni interne e anche coloro che guardano con interesse alla proposta sono cresciuti. Ma il «direttorio» è ancora contro.

Orfini parla di «appello strumentale», affermazione lapalissiana, visto che non v'è proposta che non si proponga un fine; Renzi dice che Di Maio li vuole dividere, ma i numeri dicono di no, il M5S ha bisogno per la maggioranza non di una parte, di tutti i voti del Pd; «la nostra linea non cambia», ha detto Martina col suo linguaggio semplice, ed ha aggiunto: «Non è auspicabile un governo tra M5S e Lega», come non lo è “il voto anticipato”. Giusto, ma fare per come evitarli?

Non pochi esponenti di spicco del Pd, come Fassino, Gentiloni, Zanda, Orlando, Cuperlo ed Emiliano, vogliono tenere la porta aperta e hanno proposto di non mostrarsi pregiudizialmente contrari al dialogo, senza che ciò prefiguri necessariamente una collaborazione. Boccia ha parlato di «aperture interessanti, ascoltiamole»; Richetti ha sottolineato che non basta fermarsi e vedere quello che fanno gli altri; e Franceschini: «Occorre riflettere e tenere unito il Pd». Unito, certo, ma non nel nulla e nella assenza.

Le diverse risposte ondeggiano dunque tra l'Aventino di Renzi (che in assemblea ha 620 suoi rappresentanti su 1.000) e l'aperturismo delle minoranze. Il discorso sul dialogo con Di Maio, del resto, si interseca con i calcoli e le manovre per la elezione del nuovo segretario dal Pd, che alcuni vogliono fare già nella assemblea nazionale del 21 aprile, altri chiedono invece di rimandare alle primarie e ad un congresso in autunno.

I notabili del Nazareno per ora si mostrano divisi e confusi. Hanno ragione quando dicono che fra loro e i due partiti, M5S e Lega, c'è una forte differenza ideologica e programmatica. Ma dovrebbero anche porsi il problema se la necessità urgente di avere un governo tra partiti, che sinora si sono reciprocamente calunniati e vilipesi, non imponga qualche ripensamento. Come chiede il Presidente della Repubblica.

Invece dentro il Pd il clima acceso di lotta tra le sue parti non lo mostra sulla strada della unità necessaria per la rifondazione, ma ripropone ciò a cui anche i loro precursori sono sempre rimasti legati: settarismo e conflittualità, nascosti da un insieme di frasi retoriche e buoniste di maniera.

Ancor oggi rimangono vizi del suo dna, anzi più di prima perché accentuati dalla sconfitta: la sicumera e la presunzione, diciamo volgarmente la «cacca sotto il naso». Si sente ancora un Giudice infallibile che può stabilire quali partiti sono affidabili e quali no. Ma il Pd oggi non è certo in ottimo stato di salute. Come del resto tutta la sinistra europea.

Possibile che l'unico modo con cui dimostrare di essere ancora vivo siano le diatribe, gli arrivismi e le lotte tra i diversi leader? Come potrà rinnovarsi senza una unità di idee e di intenti? Lo scriveva ieri un politico così autorevole come Luciano Violante, attivo prima nel Pci e poi nelle sue filiazioni: «Un partito si estingue quando ha smesso di capire la propria ragion d'essere. Il Pd sembra vicino a questa soglia». Parole inquietanti, che inducono a riflettere.

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