L’Italia non può ricattare l’Europa, ma può farsi male da sola

Con i nuovi strumenti volti a proteggere gli stati membri dalle ripercussioni della crisi di un singolo, è assai difficile sostenere che a decidere un’eventuale Italexit potrebbero essere “gli altri”

di Veronica De Romanis 5 Ottobre 2018 www.ilfoglio.it

E’ oramai da metà maggio, data in cui è circolata la bozza del “contratto di governo” contenente l’ipotesi di una possibile ristrutturazione del debito italiano, che lo spread ha cominciato a salire, fino a sfondare quota 300 punti dopo l’annuncio del rapporto deficit/Pil al 2,4 per cento. Questo aumento, tuttavia, si è tradotto solo in maniera limitata in maggiore spread per gli altri stati membri dell’Unione monetaria. Le tensioni italiane non hanno, quindi, avuto ripercussioni significative sul resto della zona euro.

A fronte di un problema creato dal paese e a danno unicamente del paese, c’è da chiedersi – allora – quale potrebbe essere la lezione da trarre. A spiegarlo è stato il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. In primo luogo, le parole contano e costano. Il governo di Roma dovrebbe avere una voce sola, e una posizione unica per quando riguarda il rispetto delle regole fiscali, la permanenza all’interno dell’Unione monetaria europea e, soprattutto, il contenuto della manovra finanziaria: la crescita si attesterà all’1,6 per cento come dichiarato dal ministro Tria oppure arriverà al 3 per cento come affermato dal ministro Savona? La propaganda politica aiuta certamente a guadagnare voti, ma può – nel contempo – creare un grado di incertezza tale da disincentivare chi volesse investire nel nostro paese. In altre parole, tanto più elevata è la confusione intorno alla legge di Stabilità, tanto più cresce lo spread e tanto più salato diventa il conto a carico dei contribuenti italiani. In secondo luogo, visto che l’aumento dello spread resta un episodio italiano, la soluzione non può che essere italiana. Richiedere l’intervento della Bce, ad esempio attraverso un potenziamento del programma di Quantitative easing (Qe), non è una strada percorribile. Per statuto la Bce non può venire in soccorso di un singolo paese in difficoltà, ad eccezione di situazioni straordinarie come nel 2010 quando la crisi greca aveva contagiato le economie del sud dell’Europa. La Bce decise allora di mettere in atto il programma di Securities market programme (Smp) con l’obiettivo di ridurre i tassi in Grecia, in Spagna e in Italia.

A seguito dell’aumento dello spread in Italia, invece, il contagio non è avvenuto: almeno “per ora”, ha precisato Draghi. Ciò non significa che non possa succedere in futuro se lo spread italiano salisse sui livelli del 2011, ossia oltre 500 punti base. In una simile eventualità, tuttavia, le conseguenze sarebbero ben diverse da quelle registrate all’inizio della crisi greca. All’epoca, un problema che sembrava “greco” si trasformò ben presto in un problema “europeo” a causa delle ricadute sulle altre economie dell’eurozona. E così, intervenire attraverso aiuti finanziari divenne l’unica strategia possibile. Anche perché il contagio fu, di fatto, utilizzato dal governo dell’epoca come arma per rafforzare il proprio potere negoziale: “Se fallisce la Grecia, fallisce l’Europa” questa era la posizione di Atene.

Nel caso di una crisi italiana, il paragone con la Grecia è del tutto inappropriato perché, in questi anni, la zona euro si è dotata di strumenti capaci di rendere gli stati membri meno vulnerabili. Ad esempio, le economie “contagiate” e, quindi, con spread in rapido aumento, potrebbero attivare l’Outright monetary transactions (Omt). Questo strumento, introdotto nel 2012 e per ora mai utilizzato, consentirebbe a chi ne facesse richiesta di calmierare lo spread attraverso l’acquisto da parte della Bce dei propri titoli del debito pubblico. L’acquisto sarebbe “illimitato” – e questo spiega perché l’Omt è stato definito il bazooka della Bce – ma non “incondizionato”. Per attivarlo, è necessario firmare un Protocollo di intesa in cui ci si impegna a implementare una serie di riforme (inclusa una correzione fiscale) necessarie per rendere il sistema economico più resiliente ai fattori di rischio esterni. L’attuazione del Protocollo sarebbe monitorata dall’istituto di Francoforte: in caso di inadempienza, l’intervento verrebbe interrotto.

Il ricorso all’Omt consentirebbe, quindi, allo stato contagiato di neutralizzare le conseguenze di una crisi italiana, trasformandola di fatto in un “problema italiano”, esattamente come sta accadendo in questi mesi. L’Italia, pertanto, a differenza della Grecia, non disporrebbe dell’arma del ricatto: non potrebbe dire “se saltiamo noi, salta l’eurozona”. Minacciare non sarebbe per noi una strategia credibile. Il rischio sarebbe, quindi, quello di ritrovarsi sull’orlo del precipizio senza nessun potere negoziale, isolati.

In conclusione, con i nuovi strumenti volti a proteggere gli stati membri dalle ripercussioni della crisi di un singolo, è assai difficile sostenere che a decidere un’eventuale Italexit potrebbero essere “gli altri”, come afferma spesso il ministro Savona: a deciderlo sarebbe unicamente il governo italiano con le sue scelte di politica economica. E’ bene ricordarselo in questi giorni di stesura della legge di Stabilità.

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