Ecco come finirà il gioco del cerino fra Silvio Berlusconi e Giovanni Toti

La fibrillazione di Forza Italia dura da tempo. Ma il tracollo è stato certificato dal voto all'elezione europea nel corso della quale il partito di Berlusconi ha preso il 9%...

di Pierluigi Magnaschi, 2.7.2019 www.italiaoggi.it

La fibrillazione di Forza Italia dura da tempo. Ma il tracollo è stato certificato dal voto all'elezione europea nel corso della quale il partito di Berlusconi ha preso il 9% dei voti mentre la Lega di Salvini ha portato a casa il 34%. Si sono quindi più che invertiti i rapporti di forza fra i due partiti di centrodestra. Le urne hanno infatti dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il centrodestra non è più a trazione berlusconiana ma a trazione salviniana.

Con le Europee la Lega vale 3,77 volte più di Forza Italia. È quindi saltato, improvvisamente e in modo clamoroso, sulla base del brutale e incontestabile linguaggio delle cifre, uno schema di gioco politico e di attribuzione dei potere fra queste due forze di centrodestra che era durato quasi un quarto di secolo e che pertanto si supponeva eterno (almeno così lo riteneva Berlusconi) anche se in politica di eterno non c'è mai niente.

Il sopravvenuto strapotere elettorale leghista è stato inoltre rafforzato dal successo elettorale di Fratelli d'Italia (Fd'It) di Giorgia Meloni che, contro ogni previsione e attesa, ha ottenuto più del 6% dei consensi. Che sia stata una sorpresa il risultato da Fd'It, lo dimostra il fatto che, nelle precedenti elezioni europee, il partito della Meloni non era riuscito a superare neanche la barra del 4% e quindi non era riuscito ad avere nemmeno un candidato a Strasburgo.

Questo rischio era possibile anche questa volta. I sondaggisti avevano però rilevato che, non appena la Meloni espresse pubblicamente la sua autonomia da Berlusconi (e implicitamente una maggior vicinanza nei confronti della Lega) i consensi per Fd'It cominciarono a salire e a situarsi stabilmente oltre la soglia del 4%. Insomma la decisione della Meloni di non essere più gregaria di Berlusconi, ma una battitrice libera, le ha giovato dal punto di vista elettorale. Ciò vuol dire che nel centrodestra c'è un blocco di potere del 41% (dovuto alla somma dei voti della Lega più quelli di Fd'It, due partiti diversi ma non opposti) che si misura con il 9% di Forza Italia, che pesa quindi 4,55 volte più del solo partito di Berlusconi.

Stando così i fatti, la minaccia (pressoché formalizzata con un summit del 6 luglio a Roma) del governatore della Liguria Giovanni Toti di uscire da Forza Italia per dare luogo ad una nuova formazione politica di centrodestra, destinata a raccogliere i dirigenti di Forza Italia impauriti dalla prospettiva di finire la loro carriera politica in occasione di eventuali elezioni anticipate (che nessuno può permettersi di escludere), è stata finalmente presa in considerazione come teoricamente deflagrante su una Forza Italia già fortemente indebolita dalla deludenti prestazioni elettorali.

Il legale e massimo consiliori super partes di Berlusconi, l'avvocato Niccolò Ghedini, è riuscito a convincere il Cavaliere, non senza comprensibili difficoltà, a offrire a Toti, in extremis, un'occasione per restare. La funzione del coordinatore politico del partito è stata così ripartita fra Mara Carfagna (per il Sud Italia) e Giovanni Toti (per il Nord del Paese). L'asso dialettico nella manica che Ghedini ha speso per convincere un riluttante Berlusconi era che, anche se Toti si fosse portato addietro solo il 2% dei voti di Forza Italia (un'inezia per Toti tale da farlo finire in un angolo alla Gianfranco Fini), avrebbe però portato Forza Italia al di sotto dell'area di sopravvivenza, cioè sul 7%. Da qui l'improvvisa (anche se sorvegliata) arrendevolezza di Berlusconi. Che però si è subito dimostrata un arretramento tattico, non una decisione meditata ed irreversibile.

Questa circostanza è stata subito percepita da Toti come una realtà. Da qui la sua richiesta-prova della verità di azzerare i dirigenti regionali del partito a lui affidati (nel Nord del Paese) nella convinzione che sarebbe stato inutile cercare di coordinare dei dirigenti che erano insediati ai vertici regionali su scelta e mandato di Berlusconi. Costoro, scelti per obbedire al patron, non sarebbero stati sicuramente duttili nell'applicare le decisioni di Toti che quindi avrebbe ricevuto un pennacchio e delle insegne a condizione di non poterle trasformare in potere effettivo.

È questo, in sostanza, il braccio di ferro in corso fra Berlusconi e Toti che sarà destinato a provocare le dimissioni di Toti che può essere fatto fuori subito oppure, se vorrà proseguire nelle sfida, sarà fatto fuori dopo. Ma non molto dopo. Non c'è una terza possibilità perché Berlusconi ha una visione padronale del suo partito. E questo non è un giudizio dispregiativo ma una constatazione fattuale. Il Cavaliere infatti è sempre stato l'indiscutibile socio di maggioranza nelle sue aziende. È, per natura ed abitudine, abituato a comandare e, in ogni caso, a non soggiacere mai ad altri.

Questa attitudine, che fa parte del suo dna professionale ed esistenziale, è assolutamente insuperabile. Si dice che Berlusconi non abbia mai fatto crescere coloro che sarebbero stati in grado di sostituirlo. Il più tardi possibile, è ovvio. Ma Berlusconi non ha mai preso in considerazione l'ipotesi di poter essere sostituito. Oltretutto la sua vita economica e politica, impostata in questo modo, e che è durata più di mezzo secolo, gli ha sempre dato grandi soddisfazioni. Perché cambiarla, allora?

Rendere contendibile la sua creatura politica (perché di questo, oggi, si tratta) non è concepibile per Berlusconi. Fare congressi, aprire dibattiti, varare primarie, venire a patti, accettare compromessi, lottare, non con gli avversari fuori dal partito, ma con correnti dentro il partito, sarebbe, per Berlusconi (anche se molti analisti fanno finta di non essersene accorti) un'attività politica contro natura e quindi assolutamente inaccettabile. Nemmeno adesso che Forza Italia, da un sondaggio Swg della scorsa settimana e confermato da altre fonti di ricerca, non viene più data neppure al 9% che prese nelle passate elezioni europee ma al 6,6%. Una percentuale da brivido. Sia che Toti resti che se ne vada. Ma se andandosene Toti portasse via anche solo l'1% delle intenzioni di voto, Forza Italia si ridurrebbe al 5,6%, al di sotto quindi delle intenzioni di voto attribuite al partito della Meloni, da sempre, nei fatti, considerato, non un partito alleato, ma una passatoia politica.

Pierluigi Magnaschi

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