SCUOLA/ Quelle brutte resistenze contro un sistema che dà lavoro ai giovani

Erogare percorsi di istruzione e formazione professionale è una sfida benefica per gli istituti professionali. Ma le resistenze sono molte. A cominciare da docenti e dirigenti

21.12.2019 - Roberto Vicini ilsussidiario.net lettura4’

Erogare percorsi di istruzione e formazione professionale è una sfida benefica per gli istituti professionali. Ma le resistenze sono molte. A cominciare da docenti e dirigenti

Il nuovo ordinamento dell’istruzione professionale, oltre a ridefinire gli indirizzi e i profili in uscita a “banda (molto) larga”, ha cambiato anche le regole per l’erogazione in via sussidiaria da parte delle scuole dei percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP). Ora infatti non è più possibile la soluzione (cosiddetta “integrativa”) che prevedeva per i ragazzi l’iscrizione ai percorsi quinquennali dell’ordinamento statale e l’ottenimento contestuale della qualifica professionale “regionale” al terzo anno. Le modalità secondo cui ciò si concretizzava sono state le più disparate. In teoria esse dovevano comunque garantire lo sviluppo contestuale e integrato dei due ordinamenti (statale quinquennale e regionale triennale). Ma a parte situazioni virtuose – come ad es. quelle dell’Emilia-Romagna, della Toscana, del Friuli-Venezia Giulia o della Liguria –, nella maggior parte dei casi la “minestra” che veniva offerta agli studenti era di fatto sempre e solo quella dei percorsi di istruzione professionale, senza effettiva integrazione progettuale e curricolare con l’altro sistema.

Oggi le scuole che intendono offrire anche la IeFP devono invece garantire all’utenza al momento dell’iscrizione la scelta tra i due ordinamenti. Non vale più insomma la formula del “paghi uno e compri due”. Per i ragazzi che hanno scelto la IeFP e non possono (si spera solo per questioni di limiti numerici…) essere inseriti in gruppi classe che sviluppano i relativi standard di apprendimento, tutt’al più sarà possibile personalizzare il percorso quinquennale in cui obtorto collo sono stati inseriti con interventi integrativi, spendibili come crediti formativi per sostenere l’esame di qualifica. La ragione è quella di evitare la dispersione e di tenere nel circuito formativo tutti quanti; anche se è facilmente immaginabile come ciò si presti a reintrodurre dalla finestra quanto fatto uscire dalla porta, ossia la precedente soluzione “integrativa”.

Ma non ci interessa ora approfondire questo aspetto, bensì, piuttosto, come mai l’offerta sussidiaria (nella sua nuova formula) sia così osteggiata dai docenti, da una buona parte dei dirigenti scolastici e in diversi casi anche dai livelli periferici dell’amministrazione.

I motivi sono presto detti. Tralasciando l’ovvia – non giustificabile – resistenza verso ogni cambiamento, il primo mantra che si sente recitare è quello relativo al nodo degli organici del personale docente, scoglio su cui si infrange ogni seppur piccola istanza di modifica organizzativa e didattica della scuola italiana. L’erogazione dei percorsi di IeFP implica infatti l’adozione degli standard regionali, che hanno parametri orari diversi da quelli dei percorsi statali, nonché la necessità di configurare una dotazione organica qualitativamente adeguata, in grado di sviluppare il set di competenze degli specifici profili professionali regionali.

Le ripercussioni sono: a) che il quadro degli insegnamenti e delle classi di concorso è diverso da quello degli indirizzi di istruzione professionale; b) che la dotazione complessiva è quantitativamente inferiore, sia perché in alcune Regioni il monte ore complessivo è quello dello standard minimo nazionale (990 ore) e non quello delle 1056 ore dell’ordinamento statale, sia perché i percorsi sono al massimo quadriennali e non quinquennali. Tutto ciò nel mondo della scuola induce mediamente reazioni di orticaria, se non vere e proprie crisi di rigetto.

Il primo aspetto – determinazione qualitativa dell’organico – richiede infatti la messa in gioco di soluzioni di flessibilità progettuale-organizzativa e l’assunzione di responsabilità da parte dei dirigenti, che nella maggior parte dei casi preferiscono però lasciar impropriamente decidere ai collegi docenti, dove nessuno si azzarda a votare per una riduzione di cattedra di un proprio collega (anche perché ciò potrebbe capitare a se stessi).

Il secondo viene osteggiato in nome di una conseguente, presunta perdita di posto di lavoro. Argomentazione assolutamente falsa, giacché il posto di lavoro per i docenti in ruolo – la condizione dei precari ha ben altre cause – rimane comunque garantito. L’unico effetto potrebbe essere quello di uno spostamento di sede. Cosa che oggi, nel panorama della mobilità del lavoro che coinvolge qualsiasi settore, riguarda un po’ tutti. Perché la scuola no? I lavoratori a rischio di perdita del posto di lavoro sono gli operai dell’acciaieria di Taranto, di certo non i docenti. Che dire poi ai ragazzi che non hanno neppure certezza di trovare un’occupazione, che sono disponibili a ogni forma di flessibilità e che in numero sempre più crescente se ne vanno fino all’estero a cercar lavoro? La scuola è un servizio pubblico, come tale dovrebbe preoccuparsi prima di ogni altra cosa del futuro dei giovani. È più urgente e determinante dare una preparazione professionale al passo con i tempi e reali chance di inserimento lavorativo alle nuove generazioni o garantire la sede più comoda a chi un lavoro ce l’ha già?

Tra l’altro tutta questa resistenza, oltre che cattiva fede, denota anche una buona dose di miopia. La IeFP è una soluzione vincente: le ultime statistiche danno circa il 70% di rapido inserimento lavorativo per chi ha frequentato questi percorsi e le ultime indagini Ocse-Pisa hanno rivelato che i ragazzi di questo segmento di sistema ottengono migliori risultati in matematica dei loro compagni dell’istruzione professionale. Non si tratta dunque solo di un canale finalizzato a contenere la dispersione scolastica, come voleva il fu ministro Fioroni, ma un segmento e una soluzione formativa su cui scommettere e investire. Una chance per la stessa istruzione professionale, che continua ad arretrare e il cui declino comporta – questo sì – anche una progressiva riduzione degli organici.

Un’ultima notazione. La norma, contestualmente alla nuova ampia caratterizzazione dei profili in uscita dai percorsi di istruzione professionale, ha previsto la “possibilità di declinare gli indirizzi di studio (….) in percorsi formativi richiesti dal territorio coerenti con le priorità indicate dalle Regioni nella propria programmazione”. Un’offerta professionalizzante non può infatti essere di tipo generale come quella liceale e tecnica, ma deve per forza di cose concretizzarsi.

Agli istituti di istruzione professionale compete dunque necessariamente di esercitare in tal senso la propria autonomia, configurando un’offerta e curricoli territoriali dove la IeFP potrebbe essere assunta in via sussidiaria, nel rispetto della sua identità e con un puntuale riferimento ai processi e alle aree di lavoro, e dove l’istruzione professionale – in particolare al quinto anno (per altro strutturabile anche in funzione dell’Ifts) – manterrebbe una caratterizzazione di maggiore trasversalità.

Tutto ciò potrebbe insomma costituire una grande occasione di riconfigurazione e rilancio per la stessa istruzione professionale. Certo, a condizione di avere solo un po’ di visione e di non rimanere abbarbicati nella difesa del vecchio che muore, con l’unico effetto di allungarne l’agonia… Pensando non alla difesa dei posti di lavoro, ma all’occupabilità dei giovani e, quindi, degli stessi docenti.

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